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sabato 21 maggio 2011

STILL UNTITLED - SISLEJ XHAFA

"Uso la creatività per esaminare e sfidare le istituzioni, l'economia, il turismo, i collegamenti geografici, la legalità forzata e l'illegalità imposta [….] Sono un ribelle semplice. A volte, essere radicale è semplice come bere un bicchier d'acqua e dormire." [Sislej Xhafa, 2003].

Il Museo d'Arte Donna Regina di Napoli, il MADRE, ospita dal 21 aprile e sino al 12 settembre la prima grande personale in un museo italiano di Sislej Xhafa, giovane artista kosovaro che vive e lavora a New York. Xhafa da diversi anni è riconosciuto a livello internazionale tra i protagonisti più originali della ricerca visiva contemporanea. In questa mostra l'artista sviluppa con il suo tipico linguaggio poliforme e programmaticamente minimalista, intriso di un'ironia quasi impassibile, il tema dei migranti e della clandestinità, mascherando e smascherando significati e immagini sociali che ne costituiscono il risvolto oscuro e minaccioso. Le questioni dei diritti umani, della migrazione, del viaggio illegale, a partire da un'esperienza evidentemente anche personale, vengono trattati da Xhafa con intelligenza e senza moralismo attraverso l’uso di diversi materiali e mezzi espressivi e spesso di performances provocatorie e paradossali che vedono il coinvolgimento di altre persone. Sislej Xhafa nasce l’8 ottobre 1970 a Peje, in Kosovo, da famiglia albanese. Lascia il proprio paese nel 1988 per l’Inghilterra, risiedendo per qualche tempo a Londra. Quindi si trasferisce a Firenze, dove studia all’Accademia di Belle Arti e inizia a sperimentare differenti linguaggi, dal disegno alla scultura, dalla performance alla fotografia, incentrando la propria ricerca artistica sulle realtà sociali, economiche e politiche e sulla complessità della società contemporanea.
Nel 1997 entra illegalmente alla 47a Biennale di Venezia per proporsi come Padiglione albanese clandestino mentre, vestito da calciatore della nazionale albanese, munito di radiocronaca registrata di una partita di calcio e di bandierina, cammina palleggiando e invitando la gente a giocare. L’azione vale all’artista l’invito alla successiva edizione della rassegna internazionale. I temi dei diritti umani, della clandestinità, della migrazione, del viaggio, mutuati dallo stesso vissuto dell’artista, sono affrontati da Xhafa con intelligenza e ironia in performance spesso provocatorie e paradossali, che mirano a coinvolgere direttamente il pubblico. Una riflessione più specificamente storica contiene l’intervento realizzato nel 2001 a Cittadellarte-Fondazione Pistoletto di Biella, che gli vale il Minimum prize della stessa istituzione. Qui invita 7 veterani della resistenza antifascista della seconda guerra mondiale attorno a un tavolo coperto di noccioline e microfoni non funzionanti a rispondere alle sue domande su come boicottare la compagnia elettrica nazionale. All’estrema libertà dei mezzi espressivi utilizzati corrisponde la concezione di opere aperte a molteplici interpretazioni e associazioni diverse da parte del pubblico più attento, nelle quali l'approccio ironico riesce ad alleggerire tematiche altrimenti eccessivamente problematiche. Questi elementi sono ben riscontrabili nel video Passionate Fruit (2007), esposto nel 2008 a Palazzo Strozzi a Firenze nell’ambito di Worlds on Video - International Video Art, a cura di Anita Beckers. L’opera presenta un'unica inquadratura, in cui una pistola bagnata da una pioggia incessante giace dimenticata sull’asfalto accanto a una pozza, intrecciando il fascino sinistro evocato dall’arma con la poetica della pioggia per dare vita a un racconto autonomo, che con scelte minimali allude tanto al passato dell’artista in Kosovo al tempo del conflitto balcanico, quanto ad altri possibili guerre, quanto, infine, ai film western e polizieschi della storia del cinema. 
(testo tratto da MADRE)

mercoledì 6 aprile 2011

GIOVANI ARTISTI CRESCONO: AFRORA BLAKQORI-UKA

L'ultimo villaggio - 49x35
Afrora Blakqori - Uka si è laureata presso la facoltà di Belle Arti di Pristina nel 1994. E' la prima artista kosovara ad avere conseguito un master in arti grafiche ed anche la prima, insiema a tutta la sua generazione, ad aver vissuto gli anni formativi durante il periodo più acceso del nazionalismo serbo. Nel 1989 si è iscritta all'università, ma dopo circa un anno di lezioni ha dovuto ultimare i suoi studi presso scuole improvvisate nelle case private. L'imposizione del regime aveva spinto gli albanesi kosovari a sviluppare in diversi settori un efficiente sistema parallelo.  Quel clima teso, quell'aria tetra e cupa, hanno influito significativamente sulla creatività della giovane artista. Non deve essere stato facile per nessuno studiare in quelle circostanze. A maggior ragione per quelle persone che fanno del vissuto quotidiano la fonte primaria delle loro rappresentazioni artistiche. La grafica di Afrora nasce da sentimenti soggettivi che vengono plasmati nelle arti visive sotto forma di associazioni simboliche e riflessioni di diversa natura. In questa sua mostra personale presso la Galleria d'Arte del Kosovo a Pristina è rappresentato il percorso pluriennale dell'artista, dove la sua creatività - quasi due decenni - si riflette in vivide immagini del mondo animale, di quello subacqueo, dei paesaggi e della natura. Le composizioni non sono figure umane, ma astratte e suggestive associazioni che rimandano a una metafora che produce emozioni specifiche. Queste sue immagini stimolanti accomunano la sua grafica al concetto ideal-estetico. Il lavoro grafico che racchiude la fase "Ultimo Villaggio" è significativamente il più ampio e, politicamente, il più profondo: lo spazio affascinante di integrità compositiva. Sempre alla ricerca di nuove trasformazioni  di quei temi che appartengono al mondo intimo dell'artista, la forma metaforica delle opere esposte rivelano sia preoccupazioni di disordine perenne di questa sua nazione, che le speranze per un futuro più felice e prospero.



Per contattare l'artista scrivete a:
afrora01@hotmail.com

martedì 11 gennaio 2011

L'ARTE DEL RICAMO: ARTHUR'S SEAT PROJECT

(Arthur's Seat Project, 1999-2000 installazione, ricamo su tela riportata su feltro, 12 elementi collezione MAXXI)

"Alla fine del 1999 ho iniziato un nuovo progetto di ricamo collettivo, il secondo. Volevo coinvolgere donne di etnia serba e albanese perché ciascuna ricamasse un frammento di uno stesso disegno preso da una geografia reale. Una specie di punto d’incontro fittizio. Sapevo anche della necessità di scegliere un luogo ‘neutrale’, che non avesse niente a che fare, almeno direttamente, con la storia personale delle 12 donne contattate, un ‘terzo’ luogo. Una geografia che io ho vissuto, emotivamente e fisicamente. Una terra di mezzo" Claudia Losi


L'Arthur's Seat è opera della giovene artista Claudia Losi. Anche questa, come molte sue opere, è frutto di un'operazione collettiva imperniata intorno a oggetti che fungono da catalizzatori di energie e di esperienze. Protagonista è il ricamo, che è perseveranza nell’esecuzione, una tecnica che non riguarda solo una generica identità femminile, ma che soprattutto assume un valore antropologico nella collaborazione con gruppi di anziane signore nei ricami collettivi. L'opera di un vulcano ricamato da donne di diverse etinie è un'immagine potente e suggestiva. Al tempo stesso il paziente e certosino lavoro delle donne riporta ad una visione delicata e intima.
Siamo all’indomani del conflitto balcanico. Il disegno stilizzato di un vulcano spento, situato nei pressi di Edimburgo, l'Arthur's Seat appunto, viene tracciato su tessuto e suddiviso in dodici parti. I frammenti vengono distribuiti a sei ricamatrici che vivono in Serbia e a sei che vivono in Kosovo (Valbona Koca, Savica Stevanović, Vasilija Kuljanin, Zivka Jaksić, Snezana Bozović, Leze Krasniqi, Fatmira Shehu, Luljeta Maloku, Milena Bojanić, Mili Miloti, Ajshe Bajrami, Sena Marković). Claudia Losi chiede loro di restituire le pezze ricamate e successivamente ricompone l’unità dell’immagine, geografia simbolica di una possibile coabitazione tra etnie diverse.
Stoffa e filo seguono il loro codice. Ciò che importa nel quadro ricamato non è il ricamo in sé, ma il lavoro intellettuale che ci sta dietro. Visto da un'altra prospettiva il ricamo è la metafora dell'intrecciarsi di legami nel tempo e della possibilità di “ricucire” strappi e ferite della storia. Il filo adesso è la parola che si intreccia nella stoffa delle difficoltà quotidiane. Anche in questo contesto - politico-sociale - sono sempre le donne, più di tutti, a svolgere la nobile arte del ricamo, abili nel tessere i rapporti col vicinatato in contesti interetnici e di difficile convivenza sociale, indispensabili figure se si vuole ritrovare il filo della convivenza, del dialogo e della riconciliazione.


Guarda il sito di CLAUDIA LOSI




domenica 2 maggio 2010

tUNg tUNg



Rrezeart Galica è un giovane artista e fa parte di quel 62% della popolazione sotto i 30 anni  di cui è composto il Kosovo, il paese con la più giovane popolazione d'Europa. I trentenni di oggi sono quelli che hanno visto con gli occhi  innocenti -quelli di un bambino- il dramma della guerra, la fuga ed i cadaveri dei loro cari. Una generazione, quella nata negli anni 80, cresciuta a pane ed "imposizione". Prima con i serbi e poi con la missione internazionale della Nazioni Unite, diversamente conosciuta col nome di UNMIK. Come avviane anche dalle nostre parti i detentori del potere o i presunti tali sono bersaglio di critiche e slogan. Su di loro, qui in Kosovo, si potrebbe pubblicare un book fotografico.
"TUNG" (arrivederci, ciao, in lingua albanese) è l'opera realizzata da Galica. Personalmente credo che esprime molto bene quel senso di "occupazione" tanto sentito tra la gente locale.


Guarda le altre opere di Rrezeart Galica


P.S. Sento il dovere di precisare, specie dopo gli ultimi articoli pubblicati, che il mio giudizio sulla missione internazionale di Unmik prima ed Eulex poi era e rimane positivo....Certamente, col senno di poi, si sarebbe  potuto fare di meglio.


lunedì 9 novembre 2009

PRISTINA JAZZ FESTIVAL '09


Il Pristina Jazz Festival, con l'edizioni di quest'anno è giunto alla sua quinta edizione. Conosciuto per essere uno degli eventi culturali più importanti del paese, il Festival è riuscito a portare artisti famosi da varie parti del mondo, ha stimolato e favorito lo sviluppo e il miglioramento della scena jazz locale e la collaborazione con artisti, associazioni e festival, riuscendo, inoltre, a trovare un posto nella rete dei festival jazz dell'Europa. Artisti del calibro di Uri Caine, Reggie Washington, Giulio Martino, Hans-Joachim Roedelius, Robin Verheyen, Aki Rissanen, Peppe La Pussata, Tim Story, Francesco D'Errico, Yiotis Kiourtisoglou e altri sono passati da Pristina. Anche quest'anno, come per le precedenti edizioni, il contributo dell'Italia, sia in termini finanziari che con la partecipazione di musicisti, è stato significativo. In questa edizione ho avuto il piacere di ascoltare Bob Albanese trio (Pianista, compositore, educatore Bob Albanese, nato a Newark, New Jersey, è una delle voci più versatili e originali del jazz e della musica contemporanea sulla scena di New York di oggi). Grazie alla generosità del caro Ilir Bajri sono riuscito a riprendere qualche passaggio più significativo del concerto.


Vi rimando alla home page del Pristina Jazz Festival per il programma delle serate musicali.

lunedì 16 marzo 2009

EVENTI

da Balcani Cooperazione

Il 18 marzo si inaugura a Milano la mostra fotografica di Francesca H. Mancini "Serbia e Kosovo 2007-2008: Quel che resta", organizzata da Provincia di Milano, Casa della Pace, Cgil Lombardia, Annaviva, Ipsia Milano/Acli. Al vernissage si accompagnerà un dibattito con inizio alle ore 19.00 a cui parteciperanno Irma Dioli - assessora alla Pace della Provincia di Milano, Nino Baseotto - segretario generale Cgil Lombardia, Silvia Maraone - presidente Ipsia Milano, Andrea Riscassi - giornalista Rai. È come la mattina dopo la sbornia, mal di testa insopportabile e problemi tutt'altro che risolti. Dopo l’ubriacatura nazionalista, Kosovo e Serbia si sono risvegliate con gli stessi guai di prima, forse di più. Per questo le foto della mostra parlano della pacificazione, ma soprattutto spiegano la crisi che lacera sia il Kosovo indipendente sia la Serbia del dopo Milošević: raccontano chi pacificazione e crisi le vive ogni giorno, da dieci anni. C'è una sposa affacciata a una finestra, ha una pistola sul davanzale: va verso il futuro, certo, ma ci va armata. La gente comune ha bandiere sopra la testa: l'aquila bicefala alcuni, il tricolore altri. Ma a guardarla dentro le foto, questa gente ha altro a cui pensare, quasi sempre. Ha attraversato un decennio di pace simulata, di povertà. E quel che rimane è un gran mal di testa, e più problemi di prima. Eppure gli sguardi sono coraggiosi, sereni. Perché quel che resta è una famiglia che aspetta un treno che li porti verso la pace, verso l’Europa. Quel che resta sono le operaie della Zastava, che sognano di tornare a produrre auto. Quel che resta sono due bambini che marciano abbracciati, segno di una fratellanza che il nazionalismo non ha infranto, non ancora. A pagare le guerre e i nazionalismi è sempre la gente comune. E in ogni foto c'è la fierezza di chi non ha debiti con la storia. Perché in questa parte del mondo, forse, tutti hanno versato l'intero prezzo.

Location: Casa della Pace di Milano (MM ABBIATEGRASSO, LINEA 2)
Via: Dini, 7
City/Town: Milan, Italy

giovedì 12 marzo 2009

IL MONASTERO DI DECANI: UNA PERLA DI ARTE E STORIA


A Decani, una ventina di chilometri da Peja/Pec e sede del famoso Patriarcato [il vaticano ortodosso della Serbia], si trova quello che è considerato il monumento religioso più interessante del Kosovo sotto l'aspetto storico e artistico. Il prezioso Monastero di Decani, struttura del 1300, è dal 2004 inserito nell'elenco del Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco. Lasciata alle spalle la polverosa strada principale, solo dopo aver percorso trecento metri circa di strada sterrata, si entra in un mondo di straordinario fascino, un luogo riparato dal caotico traffico cittadino, completamente immerso nel verde delle montagne che segnano il confine con il Montenegro e l'Albania. Una volta aver superato il controllo dei militari italiani, opportunamente avvisati dai monaci di ogni visita, si entra dentro le mura del monastero. Sembra di ritornare letteralmente indietro nel tempo; di secoli però. Qui, per nulla disturbati dalla quotidianità, modernità e dai suoi ritmi, vivono trenta monaci. Uomini alti, che sembrano ancor più magri per via delle lunghe tonache nere che indossano, volti austeri e quasi severi, figure che nascondono sotto le lunghe barbe una tranquillità d'animo che sembra quasi surreale. E' un'altra dimensione quella in cui si è calati una volta aver oltrepassato l'enorme portone d'ingresso. Le poche ore di visita che l'ospite passa a Decani sono sufficienti per ripercorrere decenni di storia religiosa e umana, di arte e tradizioni di questo monastero. Il portamento e il tono di voce pacato e sereno del monaco che mi guida facilitano questo viaggio-avventura, anche se non ci vuole molto per abituarsi al ritmo delle loro azioni. Questa comunità di religiosi, un piccolo esercito di "api operaie", è completamente autosufficiente e provvede a produrre e commercializzare miele, rakja -grappa artigianale- libri, candele di cera d'api oltre le bellissime e raffinate icone che le mani ferme ed esperte di alcuni monaci intagliano sapientemente. Il ricco bosco che si estende nelle vicinanze del monastero fornisce la materia prima per tutte queste preziose icone e la legna per il rigido inverno. L’orto che si estende appena dietro le abitazioni dei monaci è grande a sufficienza per coltivare verdure per tutti. Per scelta e vocazione non mangiano carne di maiale. A detta loro è troppo saporita, sazia il palato ma annebbia i sensi. Mangiano carne bianca e pesce, questo si, anche se le zuppe sono il pasto quotidiano. Forti del supporto e del controllo dei militari italiani, i primi ad essere intervenuti per salvaguardare sia questo monastero sia il Patriarcato di Pec, i monaci vivono, oggi, con tranquillità in questa parte di Kosovo che durante la guerra è stata una delle più calde. La delicatezza di questo posto per via del suo alto valore artistico, storico e religioso è tutelato dalla costituzione del Kosovo indipendente, che ha rifatto propri i principi contenuti nel Piano Ahtisaari. La zona intorno al monastero, per una superficie di oltre dieci ettari, [ben oltre le strutture attigue al monastero] è sotto il pieno controllo della chiesa. Tutt’intorno, quanto a bellezza, è qualcosa di indescrivibile, ma è la chiesa, dedicata all’Ascensione di Cristo, che svela il suo lato storico e artistico più interessante. La chiesa rappresenta l’ultima importante fase dell’architettura romanico-bizantina nella regione balcanica. Costruita in marmo, Decani è la più grande delle chiese medievali dei Balcani e possiede un patrimonio estremamente ricco e ben conservato di dipinti bizantini e scultura romanica risalenti al 14° secolo. Le innumerevoli pitture assumono un carattere quasi enciclopedico e presentano una gran quantità di figure e scene illustranti la storia universale dal momento della Creazione fino ai primi secoli dell’epoca cristiana. Praticamente tutte le pareti interne della chiesa sono coperte da dipinti. Sono più di un migliaio. Dicono che durante i riti religiosi, tra il forte profumo di incenso, canti ossessivi ma melodici, nello scenario rappresentato dalle annerite pitture dei santi, si respiri un'aria ancora più suggestiva. Il tour a Decani, terminato dopo la lunga spiegazione di padre Stefan, mi ha lasciato sicuramente più acculturato, ma anche più infreddolito. Il freddo delle pietre durante il pungente inverno kosovaro lascia senza fiato. Saluto i monaci presenti e i giovani militari di pattuglia e una volta giù per la stradina mi ritrovo immerso nel Kosovo rumoroso a me familiare.


Per approfondimenti storico-artistico-culturali sul Monastero di Decani consiglio di consultare il sito dell'Unesco.

articolo pubblicato sul sito www.viaggiarebalcani.net e ilreporter.com

mercoledì 25 febbraio 2009

IL PERSONAGGIO: MIKEL GJOKAJ

La linea e la luce, il significato e il segno, il peccato e la verginità nelle opere dell'artista di origine kosovara che vive a Roma dal 1975


Il maestro Gjonkaj è un pittore di grande spessore artistico, molto conosciuto ed apprezzato negli ambienti capitolini e all'estero. Ha esposto in molte gallerie d'arte, da Taiwan a Parigi, da Tokio al Lussemburgo, passando per Cuba e Lubliana. Durante una mostra collettiva organizzata dalla Casa D'Arte Ulisse a Roma, mi sono avvicinato per la prima volta alle tele dell'artista. Dalla sua biografia, le sue origini, la sua carriera si evince oltre all'indiscusso spessore artistico anche un'interessante storia personale del pittore. Solo avendo ben chiara la situazione odierna del Kosovo e le difficili relazioni tra Belgrado e Pristina, si può capire come Mikel Gjonkaj possa risultare un uomo di altri tempi, di un'altra epoca ormai scomparsa. Nasce l'11 novembre 1946 a Krusha e Madhe, un piccolo villaggio del Kosovo, tra i più colpiti dall'esercito serbo nel 1999; frequenta il liceo classico "Ali Kelmendi" nella città di Peja/Pec nel 1962-1967; frequenta la scuola superiore di Belle Arti di Pristina, negli anni accademici 1968-1970; frequenta la Facoltà di Belle Arti, sezione di pittura e incisione presso l'Università di Belgrado negli anni 1970-1974; in quello stesso anno consegue la qualifica accademica superiore e si laurea in Pittura. In ottobre 1975 giunge a Roma dove vive e lavora come cittadino italiano a tutti gli effetti. Da molti decenni lontano dalle dinamiche politiche e sociali del Kosovo, Gjonkaj, nelle sue opere, pare nutrire una forte nostalgia per la sua terra d'origine. I suoi quadri raffigurano infatti paesaggi evocativi e sentimentali. La sua pittura è fatta di "dolci esplosioni che fanno fiorire la tela, come se i suoi paesaggi fossero campi arati e coltivati con miscugli di semi senza nome" come ha affermato Marco Tonelli su Caratteri. Spero di poterlo incontrare personalmente e poter conoscere la stretta relazione tra il suo passato e il suo agire quotidiano, poter udire la foscoliana "voce del fanciullino" che c'è in lui, ovvero l'influenza che il suo essere albanese ha avuto negli anni di formazione a Belgrado negli anni di Tito e quanto sia pesata nel suo "essere artista" la tragedia che ha colpito il suo villaggio di origine, dove nel 1999 vennero uccise 453 persone. Prima di scoprire tutto questo, vorrei riportare stralci di un articolo comparso sul Trimestrale di Arte e Cultura "Terzo Occhio" per mano di Alessandro Masi, che evidenzia molto bene la forza artistica di Mikel Gjonkaj.
[Chi arriva in primavera nel Kosovo, ombelico dei Balcani, riconosce subito la luce che si accende in quel cielo. E' una luce rosa che con il passare delle ore si fa sempre più rossa e violenta, fino a diventare blu cobalto, viola, violetto scuro. Qui ha inizio l'Oriente. Solo chi ha visitato questi luoghi può comprendere la vera essenza delle opere di Mikel Gjokaj, i suoi colori, le zolle coltivate della sua pittura, quei manti luminosi posti a guardia dell'orizzonte del mondo. tra queste montagne, a 18 chilometri da Peja è nato Mikel Gjokaj. Il suo spirito indomito e avventuroso è rimasto anche nei tratti del suo volto barbuto e in quegli occhietti neri, irrequieti, mobili come quelli di un furetto. Come il dio Pan, Gjonkaj vive immerso nei boschi e sempre lì, dipinge giocoso, disegna ed incide sul rame e poi stampa nei propri torchi incisioni multicolori. Nella clausura di uno studio appena restaurato, un cascinale che un tempo fu dei contadini della campagna romana, l'artista Kosovaro trascorre felice le sue giornate come se vivesse fuori dal mondo, trascinato in una dimensione metafisica, sicuramente priva delle lancette dell'orologio della modernità. Le sue profonde radici balcaniche gli sono servite per non prendere mai le cose troppo sul serio, non etichettare il mondo, non dare molta importanza alle apparenze, alle forme visibili quanto piuttosto invisibili, ossia per cantare solo a quelle luci della sera che in ogni tramonto cambiano di suono. i suoi dipinti sono lenti come le lunghe cantilene suonate al ritmo delle litanie dei contadini moabiti, oppure racconti immaginifici di incredibili maghi o più semplicemente favole narrate intorno al fuoco. Qui tuttavia non c'è più l'Europa. L'Europa è scomparsa. In questa terra della pittura sono rimasti solo i dannati dell'Inferno di Dante e i disperati angeli di Bisanzio, quelle creature immobili, figure eteree, forme fragili, sagome ferme e sazie di luce, con le quali nulla si può e alle quali nulla è più concesso di dire. la luce di queste tele è la luce dell'esilio degli uomini dall'Eden, di una terra discostata con orgoglio e invocata con il più disperato canto d'amore].

Si ringrazia per la preziosa collaborazione e grande disponibilità la Casa d'Arte Ulisse di Roma

Info e contatti:
Via dei Due Macelli 79/82
00187 Roma - Italia
tel : +39 06 69380596
www.casadarteulisse.com

KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO