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mercoledì 27 luglio 2011

IL NORD KOSOVO: NUOVI SCONTRI, VECCHI PROBLEMI.


Il caso "Nord Kosovo" non solo non è stato mai affrontato seriamente, ma oggi, dopo oltre un decennio, si è trasformato in metastasi.
 
Torna a salire la tenzione nel nord del Kosovo lungo le frontiere 1 e 31, le principali vie di accesso per i cittadini e i prodotti serbi verso l'ex provincia della Serbia. Il motivo anche questa volta è politico ed economico allo stesso tempo. L’incidente sembra essere stato innescato da una disputa sugli scambi commerciali che avvengono lungo il confine. Dalla fine della guerra il Kosovo non ha mai potuto esportare i propri prodotti in Serbia per via di quel "Republika e Kosovës" contenuta sulle merci (la stessa cosa vale per i timbri sui passaporti che bloccano intere famiglie lungo questi confini). Al contrario, però, la Serbia ha sempre esportato grosse quantità di prodotti attraverso il confine kosovaro. Il flusso commerciale si è interrotto lo scorso 20 luglio quando il governo del Kosovo ha vietato l'ingresso dei prodotti provenienti dalla Serbia. Il mercato del Kosovo è fondamentale per la Serbia perché assorbe una fetta importante delle sue esportazioni. Il contrario non si può dire in quanto il Kosovo riesce a fare a meno dei prodotti serbi. Se questo blocco -lungo i confini mai riconosciuti dalla Serbia- è stato il primo serio stop delle merci serbe dal giorno dell'indipendenza del Kosovo, e rappresenta un enorme shock per la Serbia che oggi ha preso coscienza di quanto sia dipendente dalla sue ex provincia, le tensioni, invece, in questa striscia di terra risalgono all'immediato dopoguerra. Proteste, scontri, spari, lancio di granate, gas lacrimogeni, feriti e qualche morto. Il copione è sempre lo stesso. I protagonisti anche. Unmik e i suoi fratelli, che a mio modo di vedere hanno creato il caso "Nord Kosovo", recitano sempre lo stesso ruolo: quello di Fantozzi nel ruolo del finto pompiere. Dal dopoguerra Fantozzi ha diviso la città di Mitrovica letteralmente in due per poterla "gestire meglio", ha consentito il proliferare delle istituzioni parallele serbe, chiuso gli occhi sui traffici e il contrabbando nel nord, permesso ai cittadini serbi di violare la legge sotto i propri occhi. Rideva e si burlava quando sul ponte di Mitrovica vedeva i cittadini serbi cambiare le targhe alle macchine. Fantozzi ha cercato di non scontentare mai nessuno, ma tutte le volte che è scoppiato l'incendio, invece di prendere la pompa dell'acqua prendeva la biro e vestiva i panni del finto diplomatico. Anche questa volta, ovviamente.
 L'ultima letterina di Fantozzi il diplomatico:

UNMIK concerned about the ongoing situation in northern Kosovo
PRISTINA - Robert Sorenson, UNMIK Officer in Charge, expresses his deep concern for the ongoing situation in northern Kosovo and calls upon all parties to refrain from any action which could further exacerbate the situation. UNMIK strongly condemns the violence and believes that dialogue based upon mutual respect is the way forward for resolving issues. “UNMIK stands ready to assist in efforts to calm the situation. We call upon all parties to work with EULEX and KFOR to restore order and resolve issues through discussion and mutual understandings”, Mr. Sorenson said.

mercoledì 1 giugno 2011

PICCOLA GUERRA PERFETTA DI ELVIRA DONES


"Impari, subito dopo aver letto queste pagine, che non esiste una guerra rac­con­tata davvero se non ascolti ciò che rac­con­tano le donne che l´hanno vis­suta" Roberto Saviano.

Piccola guerra perfetta è l'ultimo romanzo di Elvira Dones che racchiude le esperienze vissute e le violenze subite da alcune donne di etnia albanese durante i bombardamenti della Nato del 1999. Dones nel libro riesce a rendere terribile, commovente e umana l'epica della sopravvivenza di tre donne assediate in una casa di Pristina. Storie crude e vere, piccole schegge di vetro che si conficcano in gola e lasciano senza fiato, al punto da coinvolgere sin da subito il lettore ed a trasmettergli l'agitazione dei protagonisti asserragliati in una città in preda all'odio etnico. L'autrice, non a caso donna -colei che custodisce nel proprio ventre materno le espressioni più profonde delle emozioni umane e che sa rappresentarle come nessun altro- riesce a cogliere ed a descrivere con dovizia di particolari le lunghe e grigie giornate dei protagonisti. Sembra quasi di ripercorrere insieme a Rea Kelmendi il rischioso tragitto che era costretta a fare per comprare il pane o le patate già invecchiate. Di rivivere le ansie del suo amato uomo, Art Berisha, che come giornalista del Koha Ditore sapeva di essere un bersaglio per i militari serbi. Oppure il panico di Nita Gashi, intenta ad attraversare la città bombardata per toccare una cornetta telefonica nera, di plastica pesante e mettersi in contatto con il resto dei familiari dall'altra parte del mondo. Un gran bel libro che racconta il dramma di chi la guerra l'ha vista con i propri occhi. Non riuscivo a capire il motivo per il quale l'autrice, che era stata in Kosovo subito dopo i bombardamenti ed aveva raccolto queste testimonianze, avesse aspettato tutto questo tempo. Elvira Dones, ha avuto la gentilezza e la cortesia di rispondermi così: "Ho voluto che ogni tassello andasse nel suo posto. Temi come questi, credo, hanno bisogno di lucidità e rigore. Ed è ciò che ho voluto raggiungere prima di scrivere". E' un libro che aggiunge un altro tassello alla ricostruzione del complicato processo della verità, quella verità che è la prima vittima di ogni guerra. Un libro scritto in memoria del ricordo, come Elvira Dones ci ricorda nell'ultima frase del libro:"Un editore una volta mi suggerì di lasciare perdere, un libro in più su una guerra non lo avrebbe pubblicato nessuno. Appunto pensai. E' per questo che lo scriverò. Perché alle guerre seguono altre guerre, e alla fine si dimenticano. Ma questa era la nostra guerra. E' questa che a modo mio ho voluto raccontare".

 IL SITO DI ELVIRA DONES

giovedì 9 dicembre 2010

PILLOLA

"Gli internazionali prendono dei serbi e degli albanesi, li portano a Belfast in un albergo a cinque stelle, gli insegnano paroloni su gestione del conflitto e convivenza, e poi li rispediscono in Kosovo, dove non hanno né pane né latte per sfamarsi. E questo, dagli internazionali, viene considerato un passo avanti".
Albin Kurti - movimento Vetevendosje 


domenica 27 settembre 2009

CIO' CHE ERAVAMO

Diario di una donna serba del Kosovo Methoija

Il libro che questa settimana mi è capitato tra le mani è quello di Radmila Todic-Vulicevic, un diario che narra le esperienze personali dell'autrice vissute in Kosovo prima, durante e dopo i bombardamenti della Nato. Frammenti di eventi quotidiani racchiusi tra il 3 Aprile 1998 e il 4 ottobre 2002. Riflessioni di facile lettura che catturano il lettore. Stessa fluidità che si nota leggendo Serbia Hardcore, ma che a differenza di questo, non si intravede nessuna critica a quel regime violento che Milosevic aveva creato e del quale, appunto, Velickovic era un fermo oppositore. L'autrice nella prima parte del libro racconta un Kosovo surreale. Racconta un Kosovo -un anno prima dei bombardamenti Nato- in preda alle attività criminali dell'UCK che spargevano terrore. Racconta di famiglie serbe che già nel 1998 scappavano dal Kosovo (non erano gli albanesi che, in file chilomentriche, fuggivano?). Racconta alcune volte di uccisioni di uomini e bambini serbi, molte altre non specifica chi sono questi morti, lasciando intuire che si tratta ancora di serbi. Una sola volta (1 marzo 1999) afferma che "un albanese è morto e altri due sono rimasti feriti". Il 12 settembre 1998 nel suo racconto l'autrice parla della scoperta di una fossa comune di uomini serbi. Per Radmila Todic-Vulicevic l'anno 1998-99 è l'anno del terrore albanese che crea panico e avrebbe potuto mietere vittime quasi ogni giorno se non ci fosse stato l'eroico esercito serbo a difendere la popolazione civile. In un passaggio di questa prima parte, riferendosi all'UCK, dice "Dio perchè stanno scaricando tutto questo odio e rabbia su di noi?"; e ancora "attacchi all'armata e alla polizia non si fermano". In questa prima parte, non solo non accenna ad alcun fatto atroce commesso dai serbi, ma accentua la forza e lo spessore che l'UCK non poteva avere. Per coloro che non sono mai andati in Kosovo ricordo, invece, che sparsi un po' ovunque ci sono numerosi monumenti che ricordano guerriglieri dell'UCK morti, ma soprattutto intere famiglie albanesi sterminate nel 1998. L'autrice non riesce a distinguere, cosa comune tra i grandi fans del regime e del nazionalismo serbo, le enormi responsabilità di Milosevic e dei suoi luogotenenti nell'aver avviato questa sporca guerra le cui conseguenze oggi, a differenza di ieri, si riversano sui cittadini serbi del Kosovo. La seconda parte del libro è molto interessante. Dico sinceramente. E' la prospettiva di una donna serba, che vive il quotidiano fatto di paure e di ansie, di incertezze e speranze. Analisi di una mamma che durante il periodo dei bombardamenti cerca di rassicurare i figli e che per loro trova la forza di andare avanti giorno dopo giorno, bomba dopo bomba, raccontati da una prospettiva veramente interessante e nuova.
La prima parte, deludente e poco veritiera, è resa ancor più allucinante dalla prefazione di Sanda Raskovic Ivic, Ambasciatrice di Serbia in Italia, con un testo che si commenta da solo.


"Il diario inizia un anno prima dei bombardamenti, nei tempi in cui l'UCK si scatena e in cui ogni giorno lascia il territorio almeno una famiglia serba, che non riesce a sopportare il terrore esercitato dai separatisti albanesi, che non riesce a sopportare l’incertezza e l’ansia del domani. Sono i tempi del sospetto verso la sincerità e l’autenticità sia dei politici locali, sia dei rappresentanti della comunità internazionale, che, come i visitatori dello zoo, si alternavano e si costruivano una loro idea, sempre condita dagli interessi delle grandi potenze. Sono descritte le distruzioni dei ponti, degli ospedali, delle ferrovie, dei treni con i passeggeri a bordo, delle colonne dei rifugiati. “Come faccio a mettere in una borsa l’anima di casa mia?” L’odio è diventato l’energia politica dei “democratici” del “nuovo Kosovo”, tutti ex combattenti dell’UCK, molti dei quali coinvolti in attività criminali. Il Kosovo e Metohija è stato “pulito etnicamente”: dal giugno del 1999, 250.000 serbi, rom e altri non albanesi se ne sono andati, sono state sequestrate 1.300 persone e uccise altre 1.000, distrutte 156 chiese, comessi atti vandalici contro 67 cimiteri. In Kosovo sono rientrati solamente 1.200 serbi".

Ciò che eravamo
collana: Frontiere del presente
editore: La città del sole
ISBN: 8882924483
euro 12

lunedì 1 giugno 2009

MARC WELLER E LA TEORIA DEL REMEDIAL SELF-DETERMINATION


Quando due treni in corsa viaggiano l'uno verso l'altro su un unico binario, non c'è molto spazio per il compromesso. O una parte si arrende e seleziona la retromarcia in fretta, o vi sarà una violentissima collisione. Questo è il modo in cui l'auto-determinazione dei conflitti è stata tradizionalmente risolta al di fuori del contesto coloniale. L'entità secessionista o rinuncia alla sua richiesta di indipendenza, oppure, prima o poi, scoppierà un violento conflitto. E il Kosovo?

Mi sono addentrato da poco nella splendida lettura del corposo testo di Marc Weller, noto professore di diritto internazionale presso l'Università di Cambridge, nonchè consulente della delegazione per il Kosovo a Rambouillet e nei negoziati di Vienna per lo status del Kosovo. Nelle cento pagine, tonde tonde, della monografia, Negotiating the final status of Kosovo, scritta per conto dell'EUISS, European Union Institute for Security Studies, l'autore, da profondo conoscitore, affronta con cognizione di causa argomenti a lui familiari, come la delicata questione dello status del Kosovo e il processo di indipendenza sopraggiunto. Ne risulta un prezioso documento ricco di minuziosi particolari che racchiudono i passaggi più cruciali del caso kosovaro. Weller analizza la costituzione Jugoslava del 1974, si sofferma poi sui vari passaggi politico-diplomatici dei principali protagonisti occidentali sul Kosovo. Nell'articolo si parla dei primi processi di negoziazione, di quello finale sullo status, del pacchetto Ahtisaari, dell'Indipendenza. L'autore conclude il suo ragionamento, dopo aver esaminato proprio tutto, parlando del concetto di autodeterminazione e di integrità territoriale, avanzando precise argomentazioni sul perchè il Kosovo debba essere considerato un "caso unico". Weller, in un passaggio della sua analisi [pag. 86], sostiene che il Kosovo è il primo caso dove viene applicato il diritto di “autodeterminazione riparativa” (remedial self-determination). In tal caso, dove un ampio segmento della popolazione di uno stato, costituzionalmente rilevante, sia stata persistentemente oppressa, esclusa dall'amministrazione del proprio territorio e dal governo centrale, esposta a sistematiche e diffuse campagne di allontanamento permanente, la teoria dell'integrità territoriale potrebbe perdere la sua forza persuasiva.
Vi invito a leggere il documento che
è consultabile in lingua inglese all'indirizzo http://www.iss.europa.eu/uploads/media/cp114.pdf. Fondamentale è la parte relativa alle conclusioni, quella dei perchè... [pag 79-94].

L'autore.
MARC WELLER insegna diritto internazionale presso il Centro di Studi Internazionali dell'Università di Cambrige e direttore del Centro europeo per le minoranze. Weller è un esperto di auto-determinazione, risoluzione dei conflitti etnici e amministrazione internazionale degli stati in transizione. Ha partecipato come consulente giuridico in una serie di processi di pace internazionale ed è il direttore del Carnegie Institute di Cambridge. Un grande conoscitore della materia e del Kosovo, autore di molti libri sul Kosovo e il diritto internazionale che per nostra sfortuna non sono tradotti in italiano.

P.S.
Sono pienamente d'accordo con il ragionamento del professore e condivido le sue riflessioni a proposito di quello che lui chiama remedial self-determination. Dirò di più. Prima ancora di sapere chi fosse Marc Weller, nell'articolo "10 anni dai bombardamenti nato sulla serbia" del 23 marzo 2009 esponevo, incredibilmente, un concetto molto simile.
"
La pulizia etnica (compiuta dai serbi) giustifica la violazione del diritto internazionale in Serbia, e quindi l'intervento Nato in Kosovo? La recente sentenza del Tribunale dell'Aia che ha condannato sei personaggi di spicco della politica e dell'esercito di allora, mostra chiaramente come l’intervento fosse in un certo senso legittimo. L'accertamento del fatto che sono state commesse delle grandi atrocità in Kosovo, secondo il mio punto di vista, implica che ogni sacrosanta "ragione di Stato", ogni violazione del diritto internazionale, è nulla rispetto alle migliaia di morti commesse e centinaia di migliaia di allontanamenti forzati".

sabato 25 aprile 2009

SRI LANKA: UNA CRISI UMANITARIA CHE NON PUÒ PIÙ ATTENDERE


Da più di trent’anni lo Sri Lanka è alle prese con gravi problemi interni, anche se è dall’inizio dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1948, che la maggioranza cingalese di fede buddista è in lotta continua con la minoranza tamil di religione induista. Ancora una volta il post-colonialismo sembrerebbe aver generato un frutto marcio: la guerra interetnica.

Lo scontro tra forze governative e i gruppi armati dei Tamil [il più radicale dei quali è il Movimento di Liberazione delle Tigri Tamil Eelam, l’LTTE], ha raggiunto oggi livelli impressionanti di violenza. È da gennaio 2008 che l’escalation di uccisioni sembra non arrestarsi. Da allora, puntualmente, ogni giorno, lontano dalla cronaca dei giornalisti occidentali e nell’impotenza degli operatori di Organizzazioni Internazionali, inermi di fronte al clima di violenza e all’odore di morte che sta impregnando il nord-est del paese, arrivano messaggi, maggiormente di propaganda governativa, di uccisioni di civili e di guerriglieri Tamil. Il governo del presidente Rajapaksa mai come prima è convinto che la questione con il gruppo terrorista dei Tamil stia per terminare e che stia per realizzarsi, invece, l’obiettivo tanto sventolato in campagna elettorale, ovvero quello di mettere fine al conflitto ultradecennale con i Tamil e riprendere così il controllo politico ed economico dei territori del nord, da sempre baluardo della minoranza Tamil. Tutto questo forse sarà anche vero, ma quello che sta succedendo, senza creare tanto scalpore nella comunità internazionale, anzi, nell’assoluta indifferenza del resto del mondo, è una vera e propria pulizia etnica. Il prezzo in termini di vite umane è inammissibile. Secondo i dati dell’Onu si parla di circa 6500 civili morti solo negli ultimi quattro mesi. Di fronte alle poche notizie frammentarie e parziali che giungono a Colombo, così come nel resto del mondo, l’unico elemento assodato è che la popolazione civile è la vera vittima di questo conflitto. Da una parte l’esercito governativo ha radicalizzato il conflitto e per via della superiorità militare è riuscito a imporre un duro colpo all’LTTE, dall’altra i ribelli, sentendosi sempre più minacciati e rinchiusi in un fazzoletto di terra più circoscritto stanno realmente diventando più violenti con tutti coloro che la pensano diversamente e, carenti di soldati tra le loro fila, arruolano con la forza uomini e bambini. In mezzo c’è il resto della popolazione civile, un esercito di vite umane con almeno 150 mila persone intrappolate nella zona direttamente interessata. Inoltre, come sempre accade nei conflitti senza testimoni indipendenti, le due parti combattono parallelamente una guerra delle parole: volano accuse e contro-accuse, denunce e repliche, che non è possibile verificare. La cronaca di questo periodo parla di una situazione non più sostenibile. La popolazione appartenente alla minoranza Tamil, in fuga dai luoghi del conflitto, si è riversata, a migliaia, un pò più a sud, nelle vicinanze di Vauniya e la Safe Zone di circa 15 km situata nei dintorni di Mullaitivu. Qui sono stati allestiti vari campi per sfollati, controllati solo ed unicamente dal governo ed inavvicinabili ad organizzazioni del calibro della Croce Rossa Internazionale. È invece notizia di pochi giorni fa, illustrata con orgoglio in una conferenza stampa dal presidente Rajapaksa, l’operazione militare che ha consentito a circa 50 mila civili (secondo fonti della BBC) di fuggire dalla zona ancora controllata dai ribelli e di riversarsi nell’area sotto il controllo di Colombo. Nella stessa conferenza stampa, il presidente ha imposto alle Tigri Tamil un ultimatum: se non si arrenderanno entro 24 ore l’esercito darà il via all’ “operazione finale”. Un’ipotesi, questa, che preoccupa per il destino dei civili ancora intrappolati nella zona dei combattimenti. Cosa succederà a queste persone, vittime inermi di questo conflitto? E chi è responsabile degli oltre mille civili uccisi durante quest’ultima operazione militare? È veramente l’esercito, come dicono i guerriglieri Tamil o sono questi ultimi, come sostiene invece il governo singalese? Ancora oggi questa responsabilità viene scaricata ad altri, mentre intanto un numero sempre crescente di civili ci sta rimettendo la vita. Il quadro a tinte fosche è stato reso ancora più reale dalle testimonianze dirette pervenuteci dalla nostra controparte locale che è riuscita ad osservare dall’esterno alcuni campi di sfollati. Si tratta, secondo la nostra fonte, di recinzioni contornate da fil di ferro, “sembrano campi di concentramento” afferma. Non c’è alcuna possibilità di avvicinarsi al campo e nemmeno di parlare con la gente. “Il campo che ho visto da vicino aveva 1600 persone stanziate nella scuola di Chettikulam e nei saloni della parrocchia”, prosegue l'operatore, che è voluto rimanere anonimo, nel racconto. Secondo la sua testimonianza solo i bambini e gli anziani sopra i 60 anni possono uscire dal campo e stare con i loro genitori, una volta accertato il rapporto di parentela. Le strutture viste da fuori dal frate sono costruzioni in legno con tetto in lamiera. Le necessità dei campi sono molte, hanno bisogno di ogni bene di prima necessità. “Nel campo di Chettikulam, per tre giorni la gente non aveva niente da mangiare e un giorno di cibo è stato razionato in modo da durare anche per i giorni successivi”, afferma. “La gente si sta indebolendo”, prosegue, “anche se il bisogno reale è la liberta’”. È un continuum di parole il suo racconto. L’aspetto più miserabile che ha riportato è che in tutta questa tragedia, come se non bastassero le difficoltà quotidiane, le famiglie vengono smembrate, “parte della famiglia è in un campo e parte in un altro, a volte anche a trenta chilometri di distanza” sottolinea il nostro interlocutore. Solo alcune organizzazioni hanno accesso diretto ai campi, molte altre possono soltanto fornire all’entrata del campo medicinali e derrate alimentari che alcuni membri della comunità smistano e utilizzano in cucine improvvisate. La rigidità e il controllo del governo nella gestione dei campi oltre a non fare pervenire un resoconto completo sulla situazione e sui reali bisogni degli sfollati, non consente alle organizzazioni internazionali di poter venire in soccorso di grandi e piccini. Anche sotto questo aspetto il governo ha insistito e lavorato tanto, riuscendo con i suoi sforzi a tenere il più lontano possibile dalla zona del conflitto e dalla sua gestione tutte le Ong e le associazioni umanitarie che cercavano di aiutare la popolazione cingalese. Il presidente Rajapaksa e la sua squadra di governo sono riusciti infatti, messaggio dopo messaggio, a fare pervenire alla maggioranza dei cingalesi un’immagine falsata delle Ong e del loro operato. Lo scopo era quello di poter così “lavorare” liberamente senza osservatori o potenziali giudici delle azioni militari appena condotte o in corso. Le autorità di Colombo hanno sfruttato il supporto dato da alcune organizzazioni alla minoranza Tamil per dipingere tutto il mondo del volontariato internazionale come associazioni schierate, il che, ovviamente, non corrisponde al vero. I risvolti di questa miope politica di rigidità nei confronti delle Ong sta dando purtroppo i risultati sperati dal governo. Il VIS da più di dieci anni sostiene progetti a distanza in Sri Lanka ed è fisicamente presente nel paese dal 2005, con progetti di ricostruzione post-tsunami e progetti socio-educativi implementati in diverse aree del paese. Dai primi anni del suo lavoro in questo paese, però, molte cose sono cambiate e i volontari espatriati del VIS, come di tutte le altre organizzazioni umanitarie che lavorano in quest’aria dell’Asia meridionale, si stanno misurando quotidianamente con molti più ostacoli. Sicuramente, la difficoltà più grande dall’inizio del conflitto è legata oggi più di ieri all’informazione tout court sul conflitto, al reperimento di dati attendibili, alla sicurezza, che non riguarda soltanto le zone interessate maggiormente dal conflitto, ma un pò tutto il territorio, Colombo incluso. Sono tanti i casi registrati nel sud dello Sri Lanka di kamikaze e bombe esplose in luoghi pubblici. L’insicurezza e l’incertezza sono due elementi con i quali gli internazionali che lavorano qui devono misurarsi quotidianamente, e due variabili indipendenti dalle attività che si portano avanti. Anche le snelle procedure tecniche post-tsunami, che hanno permesso di ricostruire un paese in buona parte distrutto, stanno lasciando il posto a sempre più farraginosi tecnicismi che non facilitano per nulla il lavoro delle Ong. Uno tra questi riguarda il rilascio e il rinnovo di visti e permessi di lavoro. Di fronte a questa fase, insieme drammatica e delicata, del conflitto, sono in tanti ad essere praticamente costretti a lasciare il paese, proprio quando il loro prezioso supporto può diventare determinante per alleviare le pene della guerra e raffreddare gli animi dei due soggetti coinvolti. In questo preciso momento è auspicabile che la Comunità Internazionale assuma un ruolo più attivo per richiedere ad ambe le parti il rispetto dei diritti umani, da troppo tempo calpestati, e poter monitorare presto il “post-guerra”, perchè ciò che preoccupa non sono soltanto le atrocità sino ad ora commesse, ma anche l’evidente mancanza di volontà del governo così come dei ribelli di costruire una società che è, senza alcun dubbio, pluralista, sin dalle fondamenta.

Sri Lanka: la voce del coniglio


giovedì 29 gennaio 2009

COLOMBIA: LE FARC ANNUNCIANO IL RILASCIO DI SEI OSTAGGI


Considerazioni dopo il mio recente viaggio in Colombia

Medellin 12.01.2009-L'entusiasmo per l'annunciata liberazione di alcuni ostaggi da parte delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (F.A.R.C.) ha accompagnato le festività natalizie colombiane aggiungendo altre sei luci - di speranza, tante sono le persone che dovrebbero essere rilasciate a breve- alle innumerevoli illuminazioni che da Bogota a Medellin e Cartagena adornano ancora le piazze e le arterie cittadine. La notizia del presunto rilascio dei sei sequestrati in mano ai guerrilleros risale al secondo semestre del 2008, come conseguenza della missiva che l'Organizzazione Colombianos por la Paz, ente di intellettuali, indirizzò alle Farc invitandoli ad intraprendere il processo di liberazione di tutti i sequestrati nelle loro mani e ad avviare un percorso di apertura verso un accordo umanitario con il governo colombiano. Le lettere di risposta dei militanti firmate dal nuovo capo supremo, Guillermo Leon Saenz Vargas, alias Alfonso Cano, hanno mostrato una certa disposizione a cercare un'uscita politica al conflitto armato che attraversa la Colombia. Una delle missive di Cano inviate a settembre contenevano i nomi e una data plausibile, il 6 gennaio 2009, per il rilascio di sei sequestrati: l'ex governatore della regione del Meta, Alan Jara, il deputato Sigifredo Lopez e altri 4 soldati in mano ai sequestratori da più di 8 anni. Ancora nulla di fatto. Comunque, se i termini, le modalità e la logistica per quest'ultima liberazione, una volta ultimati, saranno messi a segno, daranno luogo ad un rilascio significativo, il primo dopo quello avvenuto il 2 luglio del 2008. In quell'occasione fu liberata Ingrid Betancourt ed altre 20 persone, tra cui 3 cittadini americani, da tempo in mano alle Farc, a seguito di un'operazione militare dell'esercito colombiano massicciamente supportata dagli Stati Uniti e da vari paesi occidentali, in primis la Francia, terra di seconda nazionalità della Betancourt. Quel lontano 2 luglio, nella torrida selva di Guaviare, luogo dell'Operacion Jaque, è stato compiuto quello che in gergo è definito "inganno militare", una procedura che, sebbene lecita secondo il diritto internazionale umanitario, ha lasciato perplessi in molti e l'amaro in bocca alle Farc. Per portare a termine l'Operacion Jaque le forze militari colombiane si sono infiltrate nelle fila delle Farc e, sfruttando la sua struttura piramidale e i complessi meccanismi che regolano la difficile comunicazione tra le varie cellule di miliziani sono riusciti a far passare il piano di liberazione come un normale spostamento dei sequestrati in un'altra zona più sicura. Solo così 2 elicotteri sono riusciti a giungere nell'impenetrabile selva colombiana, imbarcare i sequestrati e due dei loro guardiani, e infine rivelare al mondo il trionfo dell'operazione. Una volta abbandonate le maschere di finti rivoluzionari, i liberatori hanno festeggiato l'immenso successo mediatico dell'operazione, ma hanno anche dovuto fare i conti con l'uscita della sequenza completa dell'operazione mostrata in esclusiva dalla CNN. Le clamorose immagini del presunto attore umanitario partecipante all'operazione con indosso la casacca con l'emblema del Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno fatto il giro del mondo e creato forte indignazione all'interno del Cicr, organismo indipendente, neutro e imparziale che effettua liberazioni di sequestrati ma solo con l'accordo di ambo le parti, e di numerosi altri attori umanitari che come il Comitato operano sulla base della loro neutralità, trasparenza e il dialogo con tutte le parti del conflitto. Sebbene rientrasse in quello che molti esperti di diritto hanno definito come una grave e chiara violazione delle Convenzioni di Ginevra, un atto di perfidia che come tale dovrebbe essere sanzionato, l'uso illecito o meno dell'emblema della croce rossa nell'operazione non è stato approfondito come si doveva, ma accantonato anche per via del coinvolgimento di varie diplomazie occidentali. Gennaio 2009, sei mesi dopo. Solo partendo da qui, dal clamore suscitato dalla liberazione della Betancourt, si può capire l'importanza che questo nuovo rilascio potrebbe rivestire nella sfera politica e sociale della Colombia. Quell'indiscusso successo del governo Uribe, insieme agli altri numerosi colpi inflitti alle Farc dal suo insediamento -non da ultima l'uccisione nel marzo del 2008 del suo leader storico Raul Reyes- risultano però meno efficaci e più controversi di quanto possano apparire in un primo momento, perchè compiuti sulla base di legittimi calcoli politici ma con manovre poco limpide. Oggi, se l'abilità di Uribe lo consentisse, ci potrebbero essere tutte le premesse per l'avvio di un processo che porti ad una pace duratura su una piattaforma come quella espressa dall'organizzazione Colombianos por la Paz. In questa precisa fase storica, le Farc fortemente indebolite si dicono pronte a negoziare, la società civile è molto più attenta e sensibile del passato alle continue violazioni dei diritti umani -non soltanto da parte dei gruppi armati, ma anche della forza pubblica- ed il Cicr che anche questa volta si è detto pronto ad intervenire come facilitatore per la liberazione, che potrebbe sfociare un nuovo accordo umanitario. E' difficile stabilire se Uribe in persona possa essere capace di utilizzare questo nuovo clima per attuare politiche più attente alle classi meno abbienti, interferendo così nel terreno proprio delle Farc ed eliminandone la ragion d'essere. Riuscirà il Presidente della Colombia a rispondere a questi interrogativi e conseguire in questo modo un nuovo scacco matto (jaque) capace di risolvere i tanti dubbi che aleggiano sulla sua possibile candidatura alle prossime presidenziali del 2010? Pochi colombiani credono che il loro Presidente sia disposto a mettere da parte il suo passato (il padre morì durante un tentativo di sequestro da parte delle Farc) e la strategia politica (annientamento militare delle Farc) sino ad ora perseguita per aprire le porte al dialogo.

pubblicato sul sito peacelink.it

sabato 20 settembre 2008

LA GUERRA INFINITA DI IACONA E L'AVVOCATO DEL DIAVOLO


Ieri sera è andato in onda su Rai 3 un reportage sul Kosovo dal titolo “la guerra infinita”. Dal mio personale punto di vista è stato un pessimo servizio offerto ai telespettatori in quanto non completo, ma fazioso e irrispettoso nei confronti di tutti coloro che non sono riusciti a sfuggire alla violenza etnica perpetrata per tanti anni nei confronti dei kosovari di etnia albanese. Un'ingiustizia nei confronti dei telespettatori e della storia. Una premessa risulta però doverosa. Il blog sul quale scrivo cerca di parlare del Kosovo e di tutte le sue sfaccettature. Sono testimonianza i post scritti nel tempo. Ho parlato di rom e di serbi, ho criticato comportamenti immaturi di kosovari albanesi così come le misure politiche serbe che ho ritenuto sbagliate, ho parlato di integrazione e di criminali albanesi. Non voglio aggiungere altro su questo fronte. Non ho bisogno di giustificarmi comunque. In questo momento mi sento però di dover far luce su un'aspetto chiave della vicenda serbo-albanese che il servizio del giornalista Riccardo Iacona ha tenuto nascosto. Il reportage, poteva essere un ottima vetrina per raccontare l’ultimo capitolo delle guerre balcaniche con occhio serio, professionale ed equidistante, informando il pubblico sulle mostruosità commesse dai serbi, dagli albanesi e dai criminali che in guerra, in tutte, macinano profitti. È stata però raccontata con molta superficialità, scarsa conoscenza del territorio e mancanza di etica professionale una parte della storia, quella cioè del barbaro albanese passato per “criminale, terrorista, violento, corrotto ed un po’ contadinotto” che uccide senza scrupoli e per il solo odio etnico il serbo "buono, padre di famiglia, lavoratore, studente e di sani valori". Questo mi si è presentato davanti agli occhi. Non ho nulla da obiettare su tutta la seconda parte del servizio, sulla criminalità organizzata che c'è e governa il Kosovo, su Ramush & co, sull'UCK e i criminali che vi fanno parte, sulle morti misteriose di giornalisti e testimoni. E' stato messo in luce un aspetto interessante e che dovrebbe far riflettere tutti circa il destino del Kosovo, far riflettere sull'integralismo di alcune scuole yemenite prosperate negli ultimi anni e sul traffico di droga, armi e criminalità organizzata fin dentro la politica.
Altra cosa è la prima parte.

Questa è la premessa-presentazione che circolava un po' su tutti i siti di informazione:
Riccardo Iacona ricostruisce minuziosamente la terribile pulizia etnica di cui sono stati vittime i kosovari di etnia serba. Dal 1999, da quando la NATO ha vinto la guerra contro la Serbia e insieme alle Nazioni Unite ha preso il controllo del Kosovo, 250.000 serbi sono stati cacciati dal Kosovo solo per ragioni di odio etnico, solo perchè serbi. Le loro case sono state bruciate, le loro terre sono state devastate, le loro chiese sono state distrutte, anche le più antiche e preziose, quelle del 1300, i loro cimiteri sono stati profanati a colpi di pala e di piccone, interi quartieri sono stati messi a fuoco solo per impedire ai serbi che vivevano lì da centinaia di anni di poterci ritornare. Nonostante la presenza della Nato gruppi armati di kosovari di etnia albanese hanno messo in atto una delle più sistematiche e feroci pulizie etniche che l’Europa ha vissuto dopo la seconda guerra mondiale, distruggendo così l’idea stessa di un paese multietnico che pure era stata all’origine della campagna militare della NATO contro la Serbia. Ma c’e’ di più: in questi nove anni il Kosovo e’ diventato la porta principale di ingresso della droga nel nostro Paese e in tutta Europa; e, sempre nonostante la presenza della Nato e delle Nazioni Unite il Kosovo si e’ trasformato in una piccola Colombia, un Narcostato nel cuore dell’Europa. I numeri sono impressionanti: l’80 per cento di tutta la droga prodotta in Afghanistan per entrare in Europa passa dalle valli e dalle montagne del Kosovo “liberato”. Le enormi ricchezze accumulate con il traffico della droga hanno reso potenti all’estero e in patria i clan mafiosi kosovaro albanesi, capaci di inquinare in profondità i partiti che oggi guidano il Kosovo, gettando così un enorme punto interrogativo sulla natura democratica del nuovo Stato nato il 17 febbraio di quest’anno con un atto unilaterale. Ma le strade aperte della droga e delle armi che la Nato non e’ riuscita in questi nove anni di protettorato a chiudere, sono anche quelle da cui passa il terrorismo internazionale di matrice islamica".

La trovo raccapricciante. Iacona, nella prima parte, è partito per raccontarci l'atroce storia del conflitto kosovaro escludendo a priori una parte consistente dei fatti. Per i serbi la loro storia recente inizia a marzo del '99 (il 26 hanno inizio i bombardamenti della Nato), per gli albanesi, invece, qualche anno prima. Dispiace constatare che anche per molti "quotati" giornalisti italiani - Iacona per sfortuna non è il solo- i problemi del Kosovo iniziano subito dopo i bombardamenti.....Quasi non facesse parte della loro etica professionale raccontare (e ricordare ai tanti) le mostruosità degli anni '90 commesse in Kosovo. Perchè la storia recente inizia da lì!! Non si può iniziare a descrivere un evento incominciando la narrazione già da metà della storia, saltando tutta la prima parte, caro dottor Iacona!!! Questo è quello che ha fatto, facendo un torto a tutti noi spettatori, oltre che alla storia. Il macabro disegno criminale serbo (di questo si è trattato) perpetrato ai danni della popolazione di etnia albanese negli anni precedenti, andava raccontata con la stessa minuziosità con la quale è stata descritta la violenza albanese ai danni dei serbi (vedi puntata di ieri). Nessun cenno, nessuno. Come mai questo silenzio? Noi telespettatori paganti del servizio pubblico abbiamo mandato con i nostri soldi un professionista in giro per quasi un anno, dal Kosovo alla Macedonia, dalla Turchia all’Afghanistan, per raccontarci poi “fregnacce” come dicono ironicamente a Roma.
Un approccio giornalistico, già viziato fin dalla pubblicizzazione dell’evento e che è venuto fuori in pompa magna durante il servizio. Iacona ha mostrato tanta antipatia per i kosovari albanesi e tanta humana pietas per le povere vedove serbe. Ho notato, e mi è stata data conferma da vari amici che hanno visto il servizio, come la voce tradotta dal serbo in italiano aveva un tono commosso, ed assumeva aspetti quasi arroganti quando la stessa riportava la testimonianza dell'albanese. All’ottimo maquillage ben riuscito, Iacona ha anche pensato di riportare dati inesatti e falsi. È bene ricordare ai pochi che leggeranno questo post, anche se il danno ormai è stato fatto, che Gracanica non è una prigione a cielo aperto, dove vive l'estrema povertà serba, dove i serbi vivono sotto minaccia quotidiana, dove ci sono soltanto 4 negozietti serbi improvvisati, e che le pensioni da Belgrado (per i soli cittadini serbi) non sono da fame, che a Pristina non vivono 40 serbi e a Obliq solo 2 anziani e che sia una vergogna che una chiesa sia un obiettivo militare da difendere!........Lo chieda ai serbi che fine hanno fatto fare alle moschee, a quella che si trovava a Mitrovica a ridosso del ponte sull’Ibar nel lato nord????, lo faccia sapere ai telespettatori..... Mi auguro che presto ci possa essere una successiva puntata che possa descrivere per bene quanto successo prima.
Alla fine non ho prestato fede alla premessa di sopra e ho finito per fare l'avvocato del diavolo.

Tutte le foto sono di Halit Barani scattate in qualità di Direttore del Centro per i Diritti Umani e le Libertà - Ufficio di Mitrovica. Barani, con scrupolo e puntualità è riuscito a documentare le violenze commesse durante gli anni novanta in Kosovo.

domenica 11 maggio 2008

ELEZIONI SERBE NEL CUORE DEL KOSOVO

Gracanica, nonostante l'indipendenza, si sente Serbia. E alle presidenziali vota in modo opposto al resto del paese



GRACANICA . Giorno importante questo 11 maggio 2008 per la Serbia e i destini del Kosovo. I cittadini serbi –di Serbia e Kosovo- sono alle prese con questa nuova scadenza elettorale per rinnovare il Parlamento e le amministrazioni locali. Una doppia scadenza tutta incentrata su temi legati al destino dell’integrità territoriale della Serbia, al suo futuro e all’inaccettata indipendenza del Kosovo da parte di Belgrado che hanno acceso una campagna elettorale altrimenti poco emozionante. Per il modo in cui sono giunte queste elezioni – dimissioni del governo Kustunica proprio a seguito della recente autoproclamata indipendenza del Kosovo – la partita oggi è stata molto seguita tra i cittadini serbi kosovari. Anche Unmik, seppur ancora in mezzo ai tanti problemi di management venuti a galla dopo i recenti scontri di Mitrovica, si è fatta sentire. E’ da un mese che Joachim Rucker, massimo rappresentante Unmik, dopo una fase iniziale di titubanza e non-decisione, continua a ribadire giorno per giorno che, sebbene i serbi del Kosovo siano considerati idonei a votare per i propri rappresentanti in occasione di questa tornata elettorale -è riconosciuta loro la doppia cittadinanza- lo stesso non può dirsi per le elezioni locali che saranno dichiarate invalide da Unmik non ultimo in quanto, parole del suo capo, “alimentano e rafforzano quelle strutture parallele che Belgrado ha supportato sin dal 1999”. “Elezioni illegali non potranno avere conseguenze legali”, sentenzia Rucker. Basso profilo quindi di Unmik e inesistente presenza di delegati Osce evidente ai seggi di Gracanica. Visibile era invece la presenza di pattuglie Kfor fuori dai seggi e lungo le arterie cittadine.
Nel giorno tanto atteso delle elezioni serbe qui si respirava così un’aria tesa nonchè carica di pioggia in questo piccolo villaggio nel cuore del Kosovo. Situata a pochi chilometri da Pristina, Gracanica conta la più alta concetrazione di serbi kosovari, Mitrovica escusa ovviamente, anche se la città sull’Ibar oggi più di ieri è simbolo della demarcazione politico-territoriale tra Kosovo e Serbia. La piccola comunità di Gracanica è l’espressione più colorita di multietnicità sul suolo kosovaro. Accanto alla popolazione serba vi vivono infatti un ristretto numero di albanesi kosovari, rom e bosniaci. Tuttavia, anche se per lo meno agli occhi di uno straniero non risalta una divisione netta e una duplice immagine della città, come succede invece con Mitrovica, parlare di osmosi tra le varie etnie presenti a Gracanica è sicuramente eccessivo. Proprio qui nel 2004 un diciassettenne, Dimitrije Popovic, venne ucciso da proiettili sparati da una macchina in transito sulla strada principale che attraversa Gracanica e che collega Pristina ad altri centri albanesi. La peculiarità di Gracanica la rendeva oggi importante e carica di significato; poteva renderla anche particolarmente vulnerabile. Infatti se disordini potevano verificarsi oggi in Kosovo in occasione delle elezioni serbe, certo Mitrovica questo 11 maggio sarebbe stata risparmiata. Possibili bersagli da parte di “teppisti” potevano essere invece proprio centri come Gracanica. Fortunatamente così non è stato. Una mattinata calma e tranquilla si è vissuta qui, sia dentro il seggio, affollato sin dalle prime ore del voto, che sulla strada principale, dove autobus e macchine di albanesi kosovari la attraversavano indisturbati e indifferenti. Come prevedibile alta è stata l’affluenza alle urne. Tante le persone che già alle 11.30 di mattina avevano votato, sopratutto persone di mezza età, maggiormente uomini, e particolarmente anziani. I tanti giovani hanno a disposizione l’intero pomeriggio per farlo e sicuramente lo faranno. Visibile è stata anche la presenza di alcuni membri della comunità rom. Giornata importante anche per loro quindi, i quali, decidendo di votare, hanno popolato la scuola sede del seggio, dove le tante signore rom, quasi a sottolineare l’unicità dell’evento, sfoggiavano un’eleganza ed un’accuratezza nell’abbigliamento piuttosto inusuale. Considerando la posta in gioco, ossia le aspettative e il futuro stesso dei cittadini serbi del Kosovo, queste elezioni sono state percepite come molto importanti. Ciò è riflesso oltre che nelle parole della gente, che fuori dai seggi mostrava speranze rimaste inalterate negli anni, nell’alta affluenza ai seggi, sicuramente in controtendenza rispetto al resto della Serbia: l’espressione quasi certa di un voto che sarà radicale.

articolo pubblicato sul sito di carta.org; lettera22.it; peacereporter.net; peacelink.it

KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO