Visualizzazione post con etichetta Rom. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Rom. Mostra tutti i post

lunedì 4 gennaio 2010

IO, LA MIA FAMIGLIA ROM E WOODY ALLEN

Il documenatario "Io, la Mia Famiglia Rom e Woody Allen" di Laura Halilovic ha vinto il premio Miglior Documentario Internazionale al One World/Nje Bote Human Rights International Film Festival che si è tenuto a Pristina dal 15 al 20 dicembre.
“Caro Woody”: così la 19enne regista di origine rom, Laura Halilovic, inizia la lettera indirizzata al suo regista preferito. Lei, la bambina rom cresciuta in un campo nomadi alle porte di Torino, che ha dovuto fare i conti con i soliti pregiudizi a scuola, oggi ha coronato un sogno. Ha intrapreso la carriera di regista con il documentario “Io, la mia famiglia rom e Woody Allen”. Il racconto in prima persona esplora i cambiamenti e le difficoltà della nuova vita stanziale, le relazioni con i parenti che ancora vivono nomadi, i contrasti e le incomprensioni che fin da bambina la accompagnano nelle relazioni con gli altri, i Gagè. Attraverso i ricordi dei suoi familiari, tra cui l’anziana nonna che ancora vive in un campo, le fotografie e i filmati del padre che ha documentato negli anni la vita quotidiana della piccola comunità, scopriamo una realtà sconosciuta che fino ad oggi abbiamo voluto conoscere solo attraverso gli stereotipi e i luoghi comuni. Ma il documentario non è soltanto la storia di una famiglia, di fatto chi parla è una ragazza di oggi che cresce inseguendo i propri sogni di adolescente, combattendo contro i pregiudizi e le tradizioni di una cultura difficile da accettare. Alla giovane regista auguro un grande successo con l'auspicio che il suo percorso possa essere un insegnamento per tutti noi, per quanti sono soliti discriminare senza se e senza ma.


Laura Halilovic è nata a Torino nel 1989. Terminata la scuola dell'obbligo ha collaborato, tramite un progetto di borsa lavoro, in qualità di assistente alla regia, alle attività del Centro di Cultura per la Comunicazione e i Media di Via Modena a Torino (una struttura ITER/ Istituzione Torinese per un Educazione Responsabile dei Servizi Educativi della Città di Torino). Illusione (6') 2007, è il suo primo cortometraggio ed ha vinto il festival Sotto-18 . Grazie a questo cortometraggio Laura è stata ospite del programma di RAI 3 Screensaver. "Io, la Mia Famiglia Rom e Woody Allen" è il suo primo documentario.

martedì 15 settembre 2009

I ROM: DAL KOSOVO AL CASILINO 900 (SECONDA PARTE)

Storia incredibile di alcune famiglie rom, imparentate tra loro, che dagli anni novanta in poi, quando il clima sociale e politico in Kosovo cominciava a farsi pesante, lasciarono le loro case per raggiungere l'Italia. Pensavano di essersi lasciati alle spalle l'inferno. Arrivarono, invece, al CASILINO 900.

Nella soleggiata giornata di fine agosto, all'interno del Casilino 900 vengo accolto da Feta. Così dice di chiamarsi un giovane poco più che ventenne che mi fa conoscere i suoi parenti e alcuni connazionali. Erano le cinque in punto del pomeriggio. Lo ricordo perfettamente perchè guardai l'orologio nel momento esatto in cui mi disse che aveva degli impegni a partire dalle sei: doveva rendersi disponibile per aiutare i suoi a preparare la cena del Ramadan, il mese di digiuno iniziato da poco.
I rom kosovari che vivono nel campo sono, a quanto sembra, di fede musulmana, anche se è altrettanto frequente trovare in Kosovo rom di fede ortodossa. In quella che era una regione serba i rom, infatti, erano abituati a vivere tra due fuochi -in mezzo all'aspro conflitto tra serbi ed albanesi- e, per la loro stessa sopravvivenza, avevano sempre cercato di adattarsi pur di non scontentare nessuno. E' anche per questa ragione che parlano sia serbo che albanese, e sono di fede musulmana o ortodossa.
Tutto ciò però non è bastato a risparmiarli dal conflitto degli anni '90. Rimanevano sempre rom schierati, consapevolmente o meno, con il nemico, albanese o serbo che fosse. E, per evitare l'odio nei loro confronti, molti di essi, come i parenti di Feta, sono dovuti scappare dal Kosovo, lasciare tutto ciò che avevano -casa, amici, famiglia, lavoro, progetti- nella speranza di trovare un posto in cui poter vivere in pace. Devo ringraziare proprio lui, Feta, o Farum, como poco prima mi aveva detto di chiamarsi, se riesco a superare i loro timori in questa mia giornata nel Campo, la paura e la diffidenza dei suoi abitanti verso tutto quello che viene dall'esterno. Feta era appena un bambino quando è giunto in Italia per la prima volta. A 11 anni è partito da Pristina con i genitori e i fratelli più grandi alla volta di Belgrado. Ricorda però poco di quel viaggio e cerca di ricostruirlo, tappa dopo tappa, con l'aiuto dei suoi genitori. Da Belgrado, dopo una breve sosta da alcuni conoscenti, prendono un altro autobus per una nuova meta. "Non sapevamo quale sarebbe stato il nostro viaggio intermedio" interviene la mamma di Feta nel racconto del figlio, "sapevamo soltanto che volevamo venire in Italia". Così, dopo due settimane di pellegrinaggio "quasi clandestino" riescono a superare la frontiera italiana e a lasciarsi alle spalle la città di Trieste ed il Kosovo, che in quei mesi stava letteralmente bruciando di odio. Sono proprio i genitori di Feta che, rivivendo tutta la fatica del viaggio, doloroso dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto psicologico, ricordano date e luoghi, giorni e vie del loro lungo viaggio. Credo che quando un uomo si scontra con "l'assurdo" non può fare a meno di ricordare per filo e per segno ogni cosa di quella circostanza, persino l'odore del posto. E' proprio quello che fanno con me i coniugi Hamdi nel ricostruire la loro fuga. Mi parlano di una Pristina a me sconosciuta, dove ogni cosa sembra diversa dalla città che ricordo io. Le vie solo con il nome serbo non mi dicono nulla. Riesco a capire il luogo dove vivevano prendendo come riferimento luoghi generali e piazze. Anche la Pristina che io presento è irriconoscibile ai loro occhi. In quel momento, mentre parlo dell'attuale capitale kosovara, la madre di Feta con rapido gesto tira fuori dal suo borsellino il biglietto dell'autobus che l'ha portata qui in Italia. Il biglietto integro e gelosamente custodito riporta, scritto in lingua serba: ore 11, 20 maggio 1999, Pristina. Come un fiume in piena, la signora Hamdi parla allora dei momenti impietosi vissuti alla Questura di via Genova a Roma. "Si, quella di via Genova, numero..." non lo ricorda la moglie di Ismail, ma tiene a precisare che proprio lì ha chiesto asilo politico per lei e i suoi figlioletti. E' da giugno del '99 che tutta la famiglia è rinchiusa, questo credo sia il verbo adatto, all'interno del Casilino 900. A detta della famiglia Hamdi poco o nulla è cambiato da allora. E' aumentato sicuramente il numero dei rom kosovari. Non sono cambiate per nulla invece le promesse di miglioramento che di volta in volta si sono rinnovate negli anni, e che puntualmente sono state disattese. Le paure e le incertezze, sebbene oggi più di ieri si parli di clima razzista e xenofobo, sono sempre le stesse. Il freddo rapporto con i vicini italiani, idem. I circa 40 rom arrivati al Casilino 900 alla fine degli anni novanta sono diventati oggi oltre 110. Parliamo quindi di almeno 50 bambini nati sul territorio italiano, e quindi, cittadini italiani a tutti gli effetti. Il numero dei bambini è, in effetti, impressionante e balza subito agli occhi. Tra loro anche qualche adoloscente che, pulito e ordinato, mi saluta con pieno accento romano di Roma. Riesco a scambiare qualche parola con i cugini di Feta che frequentano le scuole medie; uno di loro, il figlio di Resat Prekuplja, frequenta invece il secondo anno dell'istituto alberghiero. Sono giovani rispettuosi e istruiti che frequentano regolarmente le scuole ed hanno amici italiani. Guardano lontano loro, ma sembrano ancora poche eccezioni, non sufficienti a colmare il gap venutosi a creare con la società italiana al tempo dei loro genitori. Sicuramente, però, sono una testimonianza da considerarsi significativa, che andrebbe sostenuta e rafforzata, perchè questi ragazzi dimostrano chiaramente che con l'istruzione le loro condizioni possono migliorare. Forse, quello che dicevo nella prima parte, quando mi riferivo alla pulizia degli spazi in comune per poter vivere bene loro stessi ed i loro bambini, ha radici che iniziano proprio da lì, l'istruzione. Solo frequentando le scuole italiane i giovani rom hanno l'opportunità di imparare e confrontarsi con i loro coetanei, di superare finalmente quelle odiose barriere alzate dall'ottuso pregiudizio umano. Mentre rifletto su tutto ciò, Feta mi riporta con i piedi per terra, nella realtà che vive ogni giorno lui. Ventuno anni, sposato e con due figli, ha studiato con i salesiani e dopo la terza media ha deciso di trovare un lavoro. Si trova oggi impiegato con un'associazione italiana come intermediario della comunità rom. Ogni mattina, sul pulmino del comune, accompagna i bambini a scuola, si relaziona con gli insegnanti e informa i genitori di conseguenza. Ascolta, assorbe e riferisce. E' lui il primo a credere nell'importanza dell'istruzione, ma è altrettanto consapevole del difficile cammino che bisogna percorrere. I bambini rom frequentano la scuola abbastanza regolarmente, si trovano bene, ma la loro motivazione deve fare a pugni con tanti problemi. "Come puoi vedere", mi dice con fermezza e tristezza negli occhi, "nel campo non c'è elettricità, i servizi igienici e l'acqua non potabile si trovano solo fuori dalle case". Questo significa che "d'inverno, quando fa buio presto, i bambini, pur volendo, non possono studiare nè leggere come si deve". In quel periodo dell'anno, "quando fa molto freddo i nostri bambini non riescono a lavarsi giornalmente e quando vado a scuola a volte le maestre sottolineano che i bambini puzzano". Non fa giri di parole Feta, e con due frasi arriva al nocciolo del problema, che non può certo illustrare con facilità alle insegnanti, senza dubbio ignare, almeno in parte, delle condizioni di vita nel Casilino 900; lo presenta a me, che mi trovo, seppur momentaneamente, insieme a lui a condividere il suo inferno quotidiano. La questione sta qui. Solo se c'è un'intenzione reale da parte delle istituzioni locali e nazionali ad affrontare, seriamente, la questione immigrazione e non in maniera grossolana per pura strumentalizzazione politica, l'integrazione delle varie comunità potrà alla fine essere percepita come carta vincente che arrichisce il panorama italiano, linfa vitale di una società invecchiata. Solo con politiche serie, dove al rigore e alla determinazione seguono i diritti e le opportunità, le varie comunità, siano esse di etnia rom, curda, marocchina, peruviana o cinese che si voglia, potranno acquisire lo spessore e il ruolo che giustamente si meritano dentro una società democratica ed aperta al mondo, che pretende di essere competitiva per avanzare nel terzo millennio.


leggi la prima parte

guarda il reportage fotografico

L'intero reportage è stato pubblicato sul settimanale Carta qui-lazio numero 32 del 2009

giovedì 3 settembre 2009

I ROM: DAL KOSOVO AL CASILINO 900

Storia incredibile di alcune famiglie rom, imparentate tra loro, che dagli anni novanta in poi, quando il clima sociale e politico in Kosovo cominciava a farsi pesante, lasciarono le loro case per raggiungere l'Italia. Pensavano di essersi lasciati alle spalle l'inferno. Arrivarono, invece, al CASILINO 900.

Roma. Giornata calda e afosa di fine agosto. Il clima insopportabile si percepisce nei volti dei rom del Kosovo che vivono nel campo-ghetto più vecchio della capitale. Sanno di dover presto lasciare la miseria costruita in tanti anni per una nuova destinazione rimasta ancora oggi top secret, probabilmente per non creare allarmismi tra i residenti che dovranno accoglierli. Tredici villaggi autorizzati, a fronte degli oltre cento campi nomadi oggi esistenti, tra insediamenti abusivi e campi cosiddetti "tollerati". Non più di 6.000 nomadi sul territorio romano, invece dei quasi 7.200 attuali. Sono questi i principali obiettivi del piano "Nomadi" messo a punto dal prefetto Pecoraro e tanto voluto dal sindaco capitolino che ha impostato la sua campagna elettorale anche e soprattutto su queste tematiche. Grande senso di sollievo per i residenti del VII municipio di Roma che dopo decenni di "degrado e criminalità spicciola" si vedono finalmente riqualificare l'intera area. Grande senso di smarrimento per i circa 800 abitanti delle baraccopoli del Casilino 900 che non conoscono il loro futuro. Il Casilino 900 è infatti uno dei primi campi che si prevede sarà chiuso. Entrò metà ottobre, il 50% circa dei suoi abitanti dovrebbe essere spostato altrove. I lavori sono già in corso. Ieri, durante la mia visita al campo con il fine principale di parlare con i rom del Kosovo e conoscerli meglio, ho notato che la Croce Rossa Italiana era lì, intenta a consegnare le schede per un primo censimento. “Modulo ricognizione nuclei familiari”, era scritto su tali documenti. Accompagnato, in questa mia avventura, dai miei amici Santo e Ehsan, ci siamo dovuti improvvisare mediatori per rispondere alle domande che le varie mamme preoccupate e gli uomini del posto ci rivolgevano, ignari di cosa fossero quelle carte che tenevano tra le mani. Accolti nel "giardino" di casa del signor Resat, il neo avvocato Santo ha riempito i moduli della famiglia Prekuplja, mentre io ed Ehsan, incantati dallo scenario che avevamo davanti ai nostri occhi, abbiamo scattato qualche foto e chiacchierato con i parenti di Resat ed i suoi vicini. Questa era la mia prima volta nel Casilino 900. Ed anche per i miei accompagnatori. A differenza loro, però, avevo familiarità con i campi rom, avendoli visitati in Kosovo già svariate volte. Trovandomi di fronte al centro romano, sono però rimasto immobile per diversi secondi. Il degrado e la miseria del Casilino 900 non si differenziavano affatto da quelli del Plemetina Camp nelle vicinanze di Obliq o Cesim Lug e Osterode di Mitrovica. Comuni erano anche le agghiaccianti scene di vita quotidiana e le terribili azioni dei bambini dettate dal bisogno. Dovendole mettere sulla bilancia dell'indigno umano, credo, però, che il Casilino 900 supera, seppur di poco, i campi rom del Kosovo, per il semplice fatto che in una potenza mondiale, come si definisce l'Italia, culla della democrazia e dei diritti umani, cuore dell'Europa, è inaccettabile vedere, ancora oggi, luoghi mostruosi e inumani come quello che mi si è presentato davanti agli occhi sulla Palmiro Togliatti. All'interno del Casilino 900 sono alloggiate oggi circa 800 persone, la maggior parte di loro bambini. Qui, ognuno nella propria fetta di terra, in modo da aver costituito autentici ghetti nel ghetto, vivono i rom di 4 diverse nazionalità. Sono montenegrini, macedoni, bosniaci e kosovari. Per via delle diversità culturali e di problemi causati da motivi a noi sconosciuti, gli abitanti del campo ci hanno raccontato che le tensioni tra i vari gruppi non sono mai mancate, anzi, nei pochi momenti di aggregazione e di collaborazione, incentivati soprattutto dalle organizzazioni che di volta in volta hanno lavorato nel campo, si sono verificati scontri sfociati in vere e proprie risse. La chiusura e l'ermetismo che sembrano propri della cultura rom lasciano trapelare comunque ben poco all'esterno. Anche per questo Savorengo Ker (in lingua Romanés “La casa di tutti”), il nobile progetto realizzato da vari architetti italiani in collaborazione con alcune Università di Roma ed i rappresentanti delle 4 comunità rom del campo, è andato in fumo, bruciato in meno di due ore in una piovosa notte di inverno. Nessuno sa chi sia stato a distruggerlo. Comincio a pensare che le tensioni interne ai quattro gruppi siano alla base delle poche macerie rimaste. Comincio a sospettare questo, non per annacquare le grandi responsabilità delle amministrazioni locali che negli anni si sono succedute, o dell'Italia in generale, ma perché, di fronte all'inefficienza delle politiche sociali dell'Italia - per quel po' che vi rimane, alle maldestre politiche di immigrazione, e di fronte ai preoccupanti scenari populistici cavalcati in questi anni, le divisioni e le lotte intestine tra gli occupanti del campo hanno certo contribuito a rendere questo posto ancora più deplorevole. In poche parole, è evidente che nessuno dei suoi abitanti si preoccupa più di rendere il posto sicuro e pulito, spazzando via l'erbaccia e la spazzatura. Al contrario, nell'indifferenza e nel menefreghismo generale, usano i loro stessi spazi come mondezzai, terreno fertile per le malattie dei propri figli. Porto grande rispetto per chi versa in grandi difficoltà, e i rom del Casilino 900 senza dubbio si trovano in questa situazione, ma non credo che si possa restare indifferenti ed inattivi di fronte alla giungla che cresce vicino casa, quella dove provano a giocare e divertirsi i tuoi figli. Potrebbero provvedere a ripulire il campo per vivere un po' più decorosamente e mostrare all'esterno un'immagine meno grigia di quella che tanti esterni gli hanno facilmente affibbiato. Ad ogni modo, sono stato felice di essere ospite di alcuni generosi membri del campo. La famiglia Hamdi, ad esempio, mi ha fatto accomodare dentro casa sua. E, per quanto precaria questa potesse essere, la sua costruzione in legno mi è apparsa molto dignitosa, pulita e ordinata. Davvero! Una sorpresa, l'esatto opposto di quello che si vedeva fuori.
Quanto alle responsabilità Nostre potrei scrivere un libro. Mi limito a soffrire in silenzio.

continua..

articolo pubblicato su sito di Peacelink

guarda il reportage fotografico

leggi la seconda parte


domenica 30 agosto 2009

I ROM KOSOVARI DEL CASILINO 900

Le foto che seguono sono state realizzate all'interno del Casilino 900 nell'area dove, tra degrado, rabbia, orgoglio, fierezza, umiltà, mai rassegnazione e un pizzico di mistero, sono alloggiati i circa 120 rom provenienti dal Kosovo.

leggi l'articolo








giovedì 26 febbraio 2009

I ROM DI OSTERODE E L'UNIONE EUROPEA

Il benessere delle minoranze del Kosovo non deve riguardare solo la protezione delle stesse offerta dalle forze di pace.

Uno dei più grandi scandali in Kosovo, oggi, è quello che riguarda la minoranza rom, di quei 500 esseri umani che sono stati abbandonati dalla comunità internazionale sin dal 1999, in due campi fortemente contaminati dal piombo. Sono i campi di Osterode e Cesmin Lug nel nord del Kosovo. Dovevano essere dimore provvisorie, invece sono diventati veri cimiteri per la comunità rom. Sono stati costruiti nelle vicinanze della miniera di Trepca. Ottanta abitanti, molti dei quali bambini, sono già morti dal 1999, o per avvelenamento da piombo e altri minerali, o per il deterioramento del loro sistema immunitario. "L'evacuazione immediata di questi campi, e tutte le misure urgenti necessarie per garantire nel lungo termine la salute e il benessere delle famiglie in un luogo sicuro, con un adeguato accesso all'istruzione e le opportunità di lavoro, deve essere una priorità per l'UE, soprattutto adesso che il Kosovo è sotto la sua supervisione" afferma l'editoriale di oggi del The Irish Times. L'UE che continua a promuovere l'immagine di se stesso come un faro dei diritti umani non può certo lasciare irrisolto questo vistoso scandalo. Ci si augura che presto serie misure vengano prese per chiudere questa triste storia avvenuta sotto gli occhi attenti della comunità internazionale che disponeva di un portafoglio pieno di banconote e di speranze, barattate, con molta facilità, per l'ottenimento di un misero consenso politico.

leggi anche IL PIOMBO DI MITROVICA

mercoledì 25 giugno 2008

IL PIOMBO DI MITROVICA (seconda parte)

Le ultime da Osterode Camp

Osterode camp, costruito nel 2005 in quella che prima della guerra era una base militare serba e successivamente una postazione francese, ospita oggi più di 400 persone in container tra stradine asfaltate, ex-capannoni militari dismessi e riutilizzati dai rom e, un piccolo parco giochi, il tutto circondato da filo spinato. Certo Osterode -oggi monitorato dalla Norwegian Church Aid, agenzia che coordina i donors e le attività del campo- appare, al primo impatto, una struttura ben più comoda e pulita rispetto ai capannoni sporchi ammassati sulle rotaie ferroviarie del campo di Cesmin Lug, distante appena poche decine di metri. Tuttavia, il rappresentante Rom del campo, il Sig.Habib Haidini, senza tanti giri di parole ci tiene a precisare che cambia poco avere un container mettallico di limitate dimensioni e piccole strutture di divertimento rispetto alle baracche di lamiera contorte del campo vicino. “Non è una casa, e quelli a Cesmin Lug non vengono da noi perchè sono della nostra stessa opinione: stiamo tutti aspettando una casa, una casa vera”. Habib incontra quotidianamente i rappresentanti di enti istituzionali locali e non per far pressioni e cercare di velocizzare i tempi affinchè tutti i Rom dei due campi possano essere finalmente trasferiti in una struttura permanente –il campo di Osterode doveva rimanere funzionante appena un anno- una casa nel quartiere Roma Mahala che si sta ricostruendo. Oggi nella vasta area della residenza storica dei Rom di Mitrovica, nonostante l’attualità della “minoranza Rom” nell’agenda politica delle istituzioni e organizzazioni internazionali, sono stati però costruiti appena un centinaio di case e quattro blocchi plurifamiliari che ospitano non più di 250 persone. Molte delle case ancora non sono state assegnate, probabilmente per via dei complessi criteri che richiedono lunghe procedure burocratiche, e per altri motivi. Un dato certo è che, alla metà del 2008, non è stato fatto abastanza per i Rom di Mitrovica. Eppure è passato poco più di un anno da quando, nel marzo del 2007, gli alti rappresentanti delle istituzioni internazionali, degli uffici diplomatici e lo stesso Primo Ministro del Kosovo in una grande giornata commemorativa hanno tenuto un’imponente cerimonia di inaugurazione del quartiere Roma Mahala a Mitrovica. Grandi parole allora erano state spese da tutti, le più gettonate delle quali erano “multiculturalità” e “integrazione”. Stando alle testimonianze più recenti, come quella di Sokol Kursumlija, da anni impegnato nel campo Osterode con progetti educativo-ricreativi attraverso l’associazione locale multietnica di cui è Presidente, non c’è da stare sereni e tranquilli: anche per Osterode si parla di gravi casi di contaminazione da piombo che colpiscono soprattutto i suoi più giovani inquilini. Tuttavia Sokol ci tiene a precisare, rimanendo fermo sul fatto che effettivamente i Rom a Mitrovica vivono da tempo in condizioni a dir poco precarie, che l’argomento contaminazione da piombo non può essere circoscritto al solo discorso che verte sulla minoranza Rom, vittima a suo parere di intrighi politici, ma deve essere generalizzato in quanto riguarda l’intera area di Mitrovica. Nel caso specifico di Zitkovac, piccolo villaggio a Nord di Mitrovica, Sokol sostiene, ad esempio, di trovare “assurdo che per la sola opportunità politica soltanto per i Rom che vivevano dall’ altra parte del binario si è parlato di contaminazione mentre per i Serbi che vivono a tutt’oggi lì, a due passi da dove si trovavano i Rom, c’è ancora assoluto silenzio e nessuna preoccupazione”. Forse per via delle scarse condizioni igieniche e del contatto con la terra tipico dei bambini, i piccoli Rom sembrano tuttavia particolarmente esposti all’avvelenamento da piombo. Nel campo Osterode di recente sono stati fatti dei test sui bambini dallo staff del WHO. I risultati però sono stati negati ad Habib e gli altri Rom, che pure li richiedevano insistentemente. Stando a Sokol, per questioni di privacy i dati del WHO non potevano diffondersi, neppure ai rappresentanti UNICEF che lavoravano nel campo. “Io volevo sapere almeno il numero o la percentuale di persone contaminate di Osterode, potevo non saperne i nomi; quando quell’organizzazione mi ha negato i dati, mi sono rivolto alle strutture mediche di Mitrovica Nord dove hanno effettuato i test sui bambini. Il risultato è stato chiaro: contaminazione da piombo per la maggioranza di loro”, ricorda Habib. Un argomento così delicato da un punto di vista etico, morale, sociale e politico non dovrebbe comunque essere lasciato solo alla spicciola cronaca cittadina che spesso, incapace di sortire i necessari effetti, finisce col creare invece soltanto involontaria disinformazione. La comunità internazionale e enti di spessore come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, piuttosto che coprire la realtà con il silenzio, potrebbero seguire l’esempio positivo di altre organizzazioni che in Kosovo dedicano tempo, spazio e tanti soldi per pubblicazioni sistematiche di bollettini sui diversi argomenti. È tempo che un dossier ufficiale, onnicomprensivo e chiaro, esca allo scoperto per far luce su tutti questi anni bui. Fino a quando su queste tematiche aleggeranno solo e soltanto strumentalizzazioni di ogni genere, il problema dei Rom e della salute pubblica dei cittadini di Mitrovica resterà solo appanaggio dell’agenda politica che potrà continuare ad usarle a propria discrezione.

di Federica Riccardi e Raffaele Coniglio


articolo pubblicato sul sito di peacereporter.net, carta.org e osservatoriobalcani.org

mercoledì 18 giugno 2008

IL PIOMBO DI MITROVICA

Anche qui a Mitrovica il problema esiste e sebbene dalla fine della guerra in Kosovo del 1999 l'intera frattura tra Albanesi-Rom-Serbi non si sia ricucita, a farne principalmente le spese ancora oggi sono loro, i Rom. (Prima parte)

Tra i tanti primati che una volta caratterizzavano Mitrovica vanno annoverati il fiorente indotto minerario che faceva della città e dintorni una delle più importanti aree del Kosovo e dell’ex Jugoslavia (per estrazione di minerali, loro lavorazione-trasformazione e successiva produzione di batterie), e il più grande quartiere Rom del Kosovo, il Roma Mahala. Questi due aspetti sembrano non avere interconnessioni fra loro mentre invece hanno stretti legami e tragiche conseguenze.
Gli impianti di Trepca, il polo minerario nella ricca regione di Mitrovica, hanno contribuito notevolmente all
o sviluppo economico e sociale di questa zona per tutti gli anni '70 e '80. Erano più di 20.000 le persone impiegate, di cui la metà provenienti dalla sola area di Mitrovica, con salari indimenticabili e tanti benefits per le famiglie. Sebbene la città fosse prospera e occupata con il lavoro delle miniere, la gente rimaneva comunque insoddisfatta per via della mancanza di investimenti successivi agli introiti delle miniere. Un detto di quei tempi recitava "Trepca punon Beogradi ndėrrton" (a Trepca si lavora e a Belgrado si costruisce), sintetizzando questo aspetto.
8.000 o forse poco di più erano i membri della comunità Rom che vivevano
nel quartiere Roma Mahala di Mitrovica, una striscia di terra a sud del fiume Ibar che sembra interporsi tra i serbi e gli albanesi. I Rom anche allora come oggi non erano ben inseriti nelle strutture sociali della città, non godevano di una buona reputazione, e si sono trovati, durante gli anni dello scontro etnico in Kosovo, tra due fuochi, quello serbo e quello albanese.
Oggi la fotografia di Mitrovica è un’altra. L’intero indotto di Trepca è ridotto all’osso, nell'impianto lavorano meno di un migliaio di operai e, vi si estraggono soltanto i minerali. Gli impianti di lavorazione e trasformazione del piombo, rame, zinco sono dismessi e riversano in uno stato fatiscente. Insieme al polo turistico di Bresovica, gli impianti di Trepca sono stati un grande fallimento per la KTA , l’agenzia incaricata per le privatizzazioni in Kosovo. Quello che è rimasto dei fiorenti e produttivi impianti minerari, oltre alle obsolete strutture, è l’inquinamento del suolo. Mitrovica oggi ricopre il triste primato di città più inquinata del Kosovo e dell’ex Jugoslavia.
A farne le spese sono tutti i suoi cittadini, i Rom più degli altri. Ed oltre al problema dell’inquinamento, che li vede vittime di intrighi politici, i Rom sono anche cittadini privi delle loro case. Facilmente manipolati dai serbi e indiscriminatamente percepiti come traditori e nemici dagli albanesi, si sono visti annientare da questi ultimi tutto il loro quartiere storico. Inermi, dal lato nord del fiume che oggi divide etnicamente la città in due, hanno assistito alla distruzione delle loro case. Quelli che avevano deciso di affrontare di petto la situazione persero la vita. In tanti sono scappati in Europa, in Montenegro, in Serbia.
I pochi Rom rimasti a Mitrovica sono stati costretti a vivere, in mancanza di alternativ
e, in posti malsani e inquinati. I campi di Zitkovac, Cesmin Lug e Kablare, tutti nella parte nord di Mitrovica, furono costruiti nel novembre del 1999 per ospitare circa 500 persone di etnia Rom scappate dal loro grande quartiere. Da allora e per tutti questi anni il problema dei Rom è diventato sempre più grande.
Dovevano restare in questi posti per 45 giorni, solo Zitkovac è stato chiuso, ma soltanto nel 2006 ed i suoi abitanti sono stati dislocati negli altri campi. Nei tre campi di Zitkovac, Cesmin Lug e Kablare molti bambini mostravano infatti i classici sintomi da inquinamento da piombo: perdita di memoria, mancanza di coordinamento, vomito e convulsioni. Il Prof. Nait Vrenezi dell’Università di Pristina già in un suo studio del 1997, condotto congiuntamente con numerosi esperti internazionali, affermava che l’esposizione continua ad ambienti con alta concentrazione di piombo crea nei bambini danni motori e di percezione permanenti.
Dal 1999 al 2006, 27 persone sono morte a Zitkovac, molte delle quali con ogni probabilità a causa di avvelenamento da metallo pesante, anche se autopsie non sono mai state effettuate. Nel 2000 furono effettuati diversi test e analisi sugli abitanti dei campi dall’allora consulente russo dell’ONU, Dott
. Andrei Andreyev, che confermavano fuori da ogni dubbio l’alto livello di concentrazione di piombo nel loro sangue. Andreyev allora inoltrò un report dettagliato contenente dati e cifre all’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNMIK, chiedendo loro di provvedere ad una immediata evacuazione dei campi. Il suo report, però, che oggi non è disponibile al pubblico, non ha avuto nessun riscontro pratico, se non che molti funzionari internazionali della polizia di Unmik, che giornalmente facevano jogging accanto al campo di Cesmin Lug, dovettero fare immediati accertamenti medici, e si scoprì che il tasso di piombo nel sangue era così alto da richiedere il loro rimpatrio. Nel 2004 test capillari su 75 persone dei tre campi, principalmente bambini e donne incinte, mostravano che 44 di loro avevano livelli di piombo nel sangue più alti di quanto il macchinario potesse misurare (65 mg/dl), laddove 10 mg è considerato il punto in cui vi è un serio rischio di danni al cervello o al sistema nervoso.

di Federica Riccardi e Raffaele Coniglio

leggi la seconda parte

articolo pubblicato su peacereporter.net, carta.org e osservatoriobalcani.org

Per approfondimenti:
http://www.jstor.org/pss/3433876,
http://www.paulpolansky.nstemp.com/about.html


KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO