venerdì 27 marzo 2009

IL KOSOVO IN FUMO


Il Kosovo, maggiormente conosciuto nell'ultimo decennio per problemi connessi al conflitto, all'alto tasso di disoccupazione, alla criminalità diffusa, al traffico di nonsisabenecosa, andrebbe ricordato come la patria del massiccio consumo di sigarette. Non esistono dati ufficiali (d'altra parte non si conosce ancora il numero preciso dei suoi abitanti), ma credo che il Kosovo possa benissimo primeggiare per contendersi il primato di consumo giornaliero di sigarette per abitante. Basta passeggiare per Pristina o Peja, nel più piccolo villaggio isolato o entrare nelle caffetterie a sud e nord di Mitrovica per accorgersi dell'impressionante numero di fumatori. Il popolare detto "fumi come un turco" andrebbe cambiato. I turchi sono stati superati. Un viaggio in Kosovo è sufficiente per rendersi conto di quanto fumano i kosovari. Caffetterie, ristoranti, uffici pubblici, corsie di ospedali, ufficio del sindaco e del vice ministro, locali notturni. In Kosovo si fuma dappertutto. Non ci sono distributori automatici né i nostri "sali e tabacchi", ma le sigarette le trovi ovunque, anzi gli infiniti ambulanti (spesso ragazzi) tra un giro e l'altro te le servono al tavolino. E' difficile aprire la porta di una caffetteria senza essere letteralmente colpiti da un pugno denso di fumo in piena faccia e quindi nei polmoni. La prima cosa che succede dopo aver preso posto in un ristorante è l'arrivo del cameriere con il posacenere in mano. Bisogna come minimo succhiarsi due o tre sigarette prima di ordinare. I danni provocati dal fumo, tra giovani ragazze e fanciulli, uomini e donne, trovano riscontro nelle cifre del Ministero della Salute che mettono bene in chiaro come in questi soggetti siano in aumento tumori polmonari, infarti, problemi cardiocircolatori e problemi di fertilità tra le donne. Davanti ad un interminabile makiato o al semplice espresso shkurt, non si possono non fumare pacchetti interi di sigarette. L'estate scorsa, per faccende legate al mio lavoro, mi sono incontrato più volte con Bajram Rexhepi, sindaco di Mitrovica, che durante i nostri brevi meetings non smetteva mai di fumare le sue belle marlboro rosse taroccate. "Mi tolga la curiosità, signor sindaco, ma quante sigarette fuma in un giorno?" gli chiedo simpaticamente. Ricordo perfettamente quel preciso istante quando con voce roca e con un sorriso coscenzioso mi disse "Nel tardo pomeriggio apro il quarto pacchetto di sigarette". ..70- 75 Marlboro al giorno per non so quanti anni...! Forse anche lui potrebbe gareggiare per un bel guinnes dei primati! Ci sono comunque altre giovani persone che non hanno la fortuna di avere soldi a sufficienza per comprarsi le Marlboro rosse con monopolio Unmik o di contrabbando e per spezzare le lunghe pause di monotonia fumano rabbiosamente altre marche di sigarette più economiche. La lista per gli appassionati è lunga e variegata. Si può stare senza lavoro ma non senza le New York (lancio promozionale a 50 centesimi), le Menphis, le Ronhill, le Ronson o le Pall Mall. L'indotto che gira dietro al consumo di sigarette è altissimo e anche di questo il signor Ramush Haradinaj ne sa qualcosa. Infiniti sono i manifesti che promuovono nuove marche di sigarette. Comunque, l'invito a "fumare per essere cool" è da vari mesi nel mirino delle iniziative del Governo che ha convertito un vecchio provvedimento Unmik [Unmik/Reg/2007/1] in legge [n. 02/L-36] per regolamentare il settore del tabacco. La legge che vieta il consumo di sigarette nei luoghi pubblici e privati (articolo 10) sarebbe già dovuta essere operativa, ma a quanto pare le rigide norme in essa contenute non sono ancora state applicate. Si è trattato, pertanto, di un semplice segnale di fumo, che non ha ancora bloccato questa malsana pratica che nuoce alla salute delle persone e arricchisce gli uomini del contrabbando, ma ha, sicuramente, evitato una sommossa popolare capeggiata dall'energico sindaco di Mitrovica. Questo si!

L'intera legge è consultabile in lingua inglese sulla gazzetta ufficiale del Kosovo

articolo pubblicato sul sito ilreporter.com

lunedì 23 marzo 2009

10 ANNI DAI BOMBARDAMENTI NATO SULLA SERBIA


Sono passati 10 anni esatti dall'inizio dei bombardamenti Nato sulla Serbia. Per la cronaca era il 23 marzo del 1999 quando, dopo circa un anno di acuta crisi in Kosovo, di operazioni militari spregiudicate da parte dell'esercito serbo e delle forze paramilitari, Javier Solana autorizzò quella che alla storia è passata come "Allied Force". Il 24 marzo iniziarono i bombardamenti.
Nei mesi precedenti lo scoppio della guerra, subito dopo che i pochi osservatori dell'Osce lasciarono il Kosovo, le forze militari serbe impressero una forte offensiva contro i capisaldi dell'Uck. Furono giorni di brutali barbarie, dove furono scacciate dalle loro case migliaia di persone, villaggi interi e quartieri cittadini furono dati alle fiamme, si fece ampio ricorso alla strategia di assassini indiscriminati, stupri e saccheggi per terrorizzare la popolazione e costringerla alla fuga.
Con la decisione presa dalla Nato, creata per scopi difensivi, ci si imbarcava, per la prima volta nella storia, in un nuovo percorso. L'Alleanza Atlantica si impegnava in un'azione offensiva, attaccando uno Stato sovrano e violando in tal modo non solo la Charta dell'Onu, ma anche la propria costituzione. Nel dare il via ai bombardamenti, la Nato era convinta che la Serbia sarebbe capitolata entro due o tre giorni. Il 10 giugno, dopo che i bombardamenti durarono ben 79 giorni, si raggiunse un accordo che prevedeva il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo, firmato a Kumanovo – in Macedonia – dai vertici della Nato e dell'esercito di Belgrado. Il Consiglio di Sicurezza approvò, con la sola astensione della Cina, la Risoluzione 1244. Fu allora che si aprì un nuovo capitolo per la Serbia e i destini del Kosovo.Capitolo tutt'ora in corso.
La pulizia etnica (compiuta dai serbi) giustifica la violazione del diritto internazionale in Serbia, e quindi l'intervento Nato in Kosovo? La recente sentenza del Tribunale dell'Aia che ha condannato sei personaggi di spicco della politica e dell'esercito di allora, mostra chiaramente come l’intervento fosse in un certo senso legittimo. L'accertamento del fatto che sono state commesse delle grandi atrocità in Kosovo, secondo il mio punto di vista, implica che ogni sacrosanta "ragione di Stato", ogni violazione del diritto internazionale, è nulla rispetto alle migliaia di morti commesse e centinaia di migliaia di allontanamenti forzati.

Cosa ne pensate? Mi piacerebbe sapere la vostra opinione.

articolo pubblicato sul sito di Peacelink

lunedì 16 marzo 2009

EVENTI

da Balcani Cooperazione

Il 18 marzo si inaugura a Milano la mostra fotografica di Francesca H. Mancini "Serbia e Kosovo 2007-2008: Quel che resta", organizzata da Provincia di Milano, Casa della Pace, Cgil Lombardia, Annaviva, Ipsia Milano/Acli. Al vernissage si accompagnerà un dibattito con inizio alle ore 19.00 a cui parteciperanno Irma Dioli - assessora alla Pace della Provincia di Milano, Nino Baseotto - segretario generale Cgil Lombardia, Silvia Maraone - presidente Ipsia Milano, Andrea Riscassi - giornalista Rai. È come la mattina dopo la sbornia, mal di testa insopportabile e problemi tutt'altro che risolti. Dopo l’ubriacatura nazionalista, Kosovo e Serbia si sono risvegliate con gli stessi guai di prima, forse di più. Per questo le foto della mostra parlano della pacificazione, ma soprattutto spiegano la crisi che lacera sia il Kosovo indipendente sia la Serbia del dopo Milošević: raccontano chi pacificazione e crisi le vive ogni giorno, da dieci anni. C'è una sposa affacciata a una finestra, ha una pistola sul davanzale: va verso il futuro, certo, ma ci va armata. La gente comune ha bandiere sopra la testa: l'aquila bicefala alcuni, il tricolore altri. Ma a guardarla dentro le foto, questa gente ha altro a cui pensare, quasi sempre. Ha attraversato un decennio di pace simulata, di povertà. E quel che rimane è un gran mal di testa, e più problemi di prima. Eppure gli sguardi sono coraggiosi, sereni. Perché quel che resta è una famiglia che aspetta un treno che li porti verso la pace, verso l’Europa. Quel che resta sono le operaie della Zastava, che sognano di tornare a produrre auto. Quel che resta sono due bambini che marciano abbracciati, segno di una fratellanza che il nazionalismo non ha infranto, non ancora. A pagare le guerre e i nazionalismi è sempre la gente comune. E in ogni foto c'è la fierezza di chi non ha debiti con la storia. Perché in questa parte del mondo, forse, tutti hanno versato l'intero prezzo.

Location: Casa della Pace di Milano (MM ABBIATEGRASSO, LINEA 2)
Via: Dini, 7
City/Town: Milan, Italy

giovedì 12 marzo 2009

IL MONASTERO DI DECANI: UNA PERLA DI ARTE E STORIA


A Decani, una ventina di chilometri da Peja/Pec e sede del famoso Patriarcato [il vaticano ortodosso della Serbia], si trova quello che è considerato il monumento religioso più interessante del Kosovo sotto l'aspetto storico e artistico. Il prezioso Monastero di Decani, struttura del 1300, è dal 2004 inserito nell'elenco del Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco. Lasciata alle spalle la polverosa strada principale, solo dopo aver percorso trecento metri circa di strada sterrata, si entra in un mondo di straordinario fascino, un luogo riparato dal caotico traffico cittadino, completamente immerso nel verde delle montagne che segnano il confine con il Montenegro e l'Albania. Una volta aver superato il controllo dei militari italiani, opportunamente avvisati dai monaci di ogni visita, si entra dentro le mura del monastero. Sembra di ritornare letteralmente indietro nel tempo; di secoli però. Qui, per nulla disturbati dalla quotidianità, modernità e dai suoi ritmi, vivono trenta monaci. Uomini alti, che sembrano ancor più magri per via delle lunghe tonache nere che indossano, volti austeri e quasi severi, figure che nascondono sotto le lunghe barbe una tranquillità d'animo che sembra quasi surreale. E' un'altra dimensione quella in cui si è calati una volta aver oltrepassato l'enorme portone d'ingresso. Le poche ore di visita che l'ospite passa a Decani sono sufficienti per ripercorrere decenni di storia religiosa e umana, di arte e tradizioni di questo monastero. Il portamento e il tono di voce pacato e sereno del monaco che mi guida facilitano questo viaggio-avventura, anche se non ci vuole molto per abituarsi al ritmo delle loro azioni. Questa comunità di religiosi, un piccolo esercito di "api operaie", è completamente autosufficiente e provvede a produrre e commercializzare miele, rakja -grappa artigianale- libri, candele di cera d'api oltre le bellissime e raffinate icone che le mani ferme ed esperte di alcuni monaci intagliano sapientemente. Il ricco bosco che si estende nelle vicinanze del monastero fornisce la materia prima per tutte queste preziose icone e la legna per il rigido inverno. L’orto che si estende appena dietro le abitazioni dei monaci è grande a sufficienza per coltivare verdure per tutti. Per scelta e vocazione non mangiano carne di maiale. A detta loro è troppo saporita, sazia il palato ma annebbia i sensi. Mangiano carne bianca e pesce, questo si, anche se le zuppe sono il pasto quotidiano. Forti del supporto e del controllo dei militari italiani, i primi ad essere intervenuti per salvaguardare sia questo monastero sia il Patriarcato di Pec, i monaci vivono, oggi, con tranquillità in questa parte di Kosovo che durante la guerra è stata una delle più calde. La delicatezza di questo posto per via del suo alto valore artistico, storico e religioso è tutelato dalla costituzione del Kosovo indipendente, che ha rifatto propri i principi contenuti nel Piano Ahtisaari. La zona intorno al monastero, per una superficie di oltre dieci ettari, [ben oltre le strutture attigue al monastero] è sotto il pieno controllo della chiesa. Tutt’intorno, quanto a bellezza, è qualcosa di indescrivibile, ma è la chiesa, dedicata all’Ascensione di Cristo, che svela il suo lato storico e artistico più interessante. La chiesa rappresenta l’ultima importante fase dell’architettura romanico-bizantina nella regione balcanica. Costruita in marmo, Decani è la più grande delle chiese medievali dei Balcani e possiede un patrimonio estremamente ricco e ben conservato di dipinti bizantini e scultura romanica risalenti al 14° secolo. Le innumerevoli pitture assumono un carattere quasi enciclopedico e presentano una gran quantità di figure e scene illustranti la storia universale dal momento della Creazione fino ai primi secoli dell’epoca cristiana. Praticamente tutte le pareti interne della chiesa sono coperte da dipinti. Sono più di un migliaio. Dicono che durante i riti religiosi, tra il forte profumo di incenso, canti ossessivi ma melodici, nello scenario rappresentato dalle annerite pitture dei santi, si respiri un'aria ancora più suggestiva. Il tour a Decani, terminato dopo la lunga spiegazione di padre Stefan, mi ha lasciato sicuramente più acculturato, ma anche più infreddolito. Il freddo delle pietre durante il pungente inverno kosovaro lascia senza fiato. Saluto i monaci presenti e i giovani militari di pattuglia e una volta giù per la stradina mi ritrovo immerso nel Kosovo rumoroso a me familiare.


Per approfondimenti storico-artistico-culturali sul Monastero di Decani consiglio di consultare il sito dell'Unesco.

articolo pubblicato sul sito www.viaggiarebalcani.net e ilreporter.com

lunedì 9 marzo 2009

LA KULLA: MOLTO PIU' DI UNA ABITAZIONE


La kulla è una tipica abitazione albanese a forma di torre che si ritrova principalmente nella pianura di Dukagjini o nel Kosovo occidentale. La sua origine è legata al bisogno di ripararsi dalle vendette (servivano da rifugio da colui che "prendeva il sangue" ) dovute alle condizioni generali di insicurezza in cui vivevano le famiglie contadine. Il design della kulla, che è unica in questa parte di regione, è influenzata dai bisogni sociali e culturali della gente, dal rigido clima e dai materiali disponibili in loco. Sono abitazioni di vaste dimensioni adatte alle esigenze di grandi famiglie patrilineari, di solito costituite da una struttura a due o tre piani, la più alta della quale è riservata ai maschi della famiglia per discutere di affari e ricevere gli ospiti. Il piano terra ospita il bestiame, mentre al primo piano si trova la cucina-soggiorno e le stanze da letto. Per buona parte del tempo uomini e donne vivono la casa in spazi differenti. Un muro di mattoni o di pietre circonda l'intero insediamento, che ha strette fenditure (frenji) come finestre, usate soprattutto a scopi difensivi: un uomo può puntare il fucile attraverso di esse per colpire i nemici restando relativamente al riparo. La kulla non è soltanto una casa, ma anche una fortezza. Nella letteratura romantica albanese è inoltre un luogo simbolo di pazienza, orgoglio, coraggio e resistenza: tutte virtù necessarie, a chi non è libero, per prevalere. La kulla, abitata da famiglie patriarcali, può comprendere anche un centinaio di persone al suo interno, una comunità autosufficiente. All'interno del recinto si produce grano, latte, formaggi, ecc, tutto il necessario per l'auto-sostentamento. Tutte le decisioni importanti vengono prese dai capifamiglia (i zoti i shtepise) che raccolgono e distribuiscono le ricchezze economiche domestiche ed amministrano la giustizia.
In Kosovo c'erano molte kulla, ma per via del conflitto, trascuratezza e mancanza di manutenzione sono state danneggiate e distrutte. Alcune di queste, presenti ancora oggi in un villaggio vicino Decani sono state restaurate e rese agibili dal lavoro di alcune organizzazioni internazionali, che ne hanno riportato alla luce l'antico splendore, insieme ad aspetti folkloristici del passato.
articolo pubblicato sul sito viaggiareibalcani.net

domenica 8 marzo 2009

L'INDIPENDENZA DEL KOSOVO: VINCITORI E VINTI


L'indipendenza del Kosovo è, ad un anno di distanza, un fatto ormai tangibile. Dopo lunghi anni di trattative, falliti faccia a faccia e dossier si è giunti a considerare l'indipendenza del Kosovo come una questione dalla quale non ci si poteva più svincolare. Dall'inizio del 2004, con voce sempre più decisa, i cittadini albanesi del Kosovo andavano reclamando l'indipendenza. L'evento in questione è giunto come un elemento di assoluta novità nell'ordinamento internazionale anche se come "caso unico". In attesa di un verdetto da parte della Corte Internazionale di Giustizia, alla quale la Serbia si è rivolta per chiederne l'annullamento dell'indipendenza del Kosovo (in quanto atto illegittimo), bisogna prendere visione di questa evoluzione. L'indipendenza c'è ed è stata riconosciuta da 55 paesi, che sebbene pochi, rappresentano comunque la maggior parte dei paesi più sviluppati del mondo. Ma in questa lunga e affannosa partita kosovara, diventata sempre più una vicenda interna agli equilibri tra Usa e Russia, ci sono vincitori e vinti?
Io credo che il più fermo sostenitore del Kosovo, quello che sin dall'amministrazione Clinton, con continuità e determinazione, ha sostenuto la battaglia degli albanesi, ovvero l'America, sia il grande vincitore. Come mai è intervenuta in un posto così piccolo e lontano? Più che risposte certe si possono fare delle supposizioni. Come grande potenza mondiale e baluardo di democrazia in un mondo sempre meno multipolare, gli Usa hanno sentito il dovere di accogliere le richieste degli albanesi e di portarle all'ordine del giorno nell'agenda della politica internazionale. Così facendo un problema prettamente europeo e risolvibile in altro modo è cresciuto di intensità fino a scardinare i fragili equilibri della "giovine Europa". Potrebbe essere anche questo il cinico calcolo americano: intervenire nel cuore dell'Europa, tenendo un piede sulla coda del cane europeo per creare al suo interno delle divisioni e renderla politicamente divisa ed economicamente più fragile (l'EU dopo l'indipendenza rispecchia per certi versi questo scenario). Altro motivo dell'intervento americano va analizzato tenendo conto della geopolitica balcanica alla luce delle nuove strategie americane. Con il crollo del muro di Berlino e il collasso politico ed economico del "disegno" russo è venuta meno per l'America la necessità di mantenere attive una serie di basi militari in Germania e in altre parti d'Europa. La vicenda kosovara ha, molto probabilmente, spinto l'amministrazione di Washington a risolvere in un unica soluzione (la creazione della base militare "Camp Bondsteel", la più grande in Europa) due problemi (nuovo assetto strategico-militare in Europa e presenza fisica in Kosovo per risolvere il conflitto). Per gli americani, disinteressati in un primo momento, è possibile che nel corso degli anni si siano aggiunte altre ghiotte opportunità. Il sottosuolo del Kosovo è molto ricco di zinco, rame, oro, lignite e altro. Ci potrebbero essere importanti risvolti economici derivanti dallo sfruttamento del sottosuolo nell'interventismo americano. Ultima considerazione che bisogna fare è che il Kosovo, proprio per la sua posizione, rappresenta una linea di confine tra paesi islamici e non, una zona quindi molto delicata per l'America uscita dall'11 settembre: un osservatorio ravvicinato sul contesto medio-orientale.
Personalmente considero la Russia un altro vincitore di questa partita che da regionale è diventata mondiale. Uscita dall'isolamento proprio dell'era eltsiniana, la Russia, da Putin in poi, ha acquistato un ruolo sempre più importante negli equilibri mondiali, cercando di far valere la sua influenza in alcuni paesi del mondo e di vendere bene in termini di consenso le sue ingenti riserve di gas e petrolio. Anche lei, disinteressata inizialmente, è entrata attivamente nella partita kosovara, non per forte spirito d'amicizia verso i fratelli ortodossi, come opportunisticamente si vuol far credere, ma per contrastare nelle sedi opportune lo strapotere americano. Contrapponendosi fermamente alle idee americane sul Kosovo, Putin in persona cercava di raggiungere altri risultati, riuscendo tra l'altro ad ottenere in Georgia lo stesso risultato che gli americani hanno ottenuto in Kosovo. Oggi, grazie al gioco-forza di questi lunghi anni di trattative sullo status del Kosovo, la Russia è sicuramente più forte rispetto a inizio partita. Naturalmente, salgono sul carro dei vincitori gli albanesi del Kosovo che, dopo lunghi anni e tante sofferenze in termini di perdite di vite umane, sono riusciti a coronare il sogno di una vita: l'indipendenza. L'Europa sebbene non sia perdente nel senso classico del termine, è certamente più debole e divisa di prima. Il decisionismo americano sul Kosovo ha creato tanti malumori interni e divisioni sul riconoscimento o meno del Kosovo al punto da rendere felici alcuni e delusi altri. La partita kosovara che poteva segnare per l'Europa una grande opportunità di crescita per se stessa, si è trasformata in indebolimento politico e dissanguamento economico.
La partita del Kosovo si è conclusa, almeno per adesso, con la sconfitta, prevalentemente sentimentale, della Serbia. Dopo ben 9 anni passati lontani dalla gestione politico-amministrativa della sua ex provincia, Belgrado si è vista letteralmente sottrarre una terra che considera storica.
E' una ferita che all'orgoglioso popolo slavo brucia molto. Più in termini ideal-folkloristici che altro. La vera sconfitta potrebbe arrivare adesso se, continuando ad irrigidirsi sul Kosovo, la Serbia perdesse il treno delle opportunità, della crescita e dello sviluppo politico, democratico ed economico chiamato Europa.

articolo pubblicato sul sito di Peacelink

giovedì 5 marzo 2009

L'UNIONE EUROPEA NEL CUORE DEI BALCANI


Ieri, 4 marzo, si è tenuto presso la Sala lauree della Facoltà di Scienze Politiche de La Sapienza di Roma un convegno sui Balcani e l'allargamento dell'Europa verso est. Tra i relatori presenti c'erano gli ambasciatori di Albania, Croazia, Serbia, Montenegro. Assente quello di Macedonia. I Balcani sono un valore aggiunto per l'Unione europea: senza il loro ingresso nella Ue non potrà esserci stabilità politica e prosperità economica nell'intera regione. E' unanime il parere dei diplomatici e accademici intervenuti all'incontro dal titolo "l'Unione europea nel cuore dei Balcani: il completamento dell'espansione a est". Il Consigliere d'Ambasciata Raimondo De Cadorna, Capo della Direzione Generale EU della Farnesina, prende atto della crisi economica che sta investendo l'Europa e il mondo intero, percepita dagli ambasciatori presenti come un freno per l'allargamento, e afferma che il 2009 è "sicuramente l'anno dei Balcani". Durante le 3 ore di dibattito non sono mai mancati i momenti per sottolineare il forte spirito europeo di tutti questi paesi. L'ambasciatrice di Serbia, Sanda Raskovic-Ivic, nel suo intervento è partita proprio da questo punto affermando che "l'UE è un valore condiviso in Serbia, uno dei pilastri della sua politica estera". Secondo i dati dell'ambasciatrice l'euroentusiasmo in Serbia è passato dal 78 al 71%. "C'è bisogno di segni tangibili per la nostra opinione pubblica, che ha perso negli ultimi tempi il suo euro-entusiasmo" ha proseguito. Un altro passaggio di Sanda Raskovic-Ivic ha riguardato la collaborazione della Serbia con il Tribunale Penale Internazionale dell'Aia. Il veto imposto da un solo paese europeo (Olanda) all'entrata in Europa della Serbia ne blocca sul nascere ogni possibilità per Belgrado, che è ritenuta dagli Olandesi poco propensa a collaborare con il Tribunale. In ballo c'è ancora la cattura del generale Ratko Mladic. "La Serbia sta mostrando piena collaborazione con il Tpi" afferma l'ambasciatrice. "Riteniamo le aspettative europee eccessive e siamo stanchi di non ricevere segnali positivi per gli sforzi compiuti, in particolare su questo tema della collaborazione con l'Aia" prosegue Sanda Raskovic-Ivic che ha sottolineato come durante l'ultimo incontro di febbraio tra il Ministro degli Esteri Frattini e il suo omologo serbo, Vuk Jeremic, si sia discusso proprio di questo. Con il grande amico di sempre, l'Italia, primo partner commerciale della Serbia, nell'incontro di Roma è stato firmato un protocollo per avviare un lavoro congiunto tra i due governi per la cattura del super ricercato Mladic.
E' stata sicuramente una giornata interessante, ma anche in questa occasione ho dovuto ricoprire la parte dell'avvocato difensore. Prendo la parola. Nel mio intervento ho fatto presente che sebbene si parlasse di allargamento si era verificata per l'occasione una esclusione e che trovandoci in una facoltà di Scienze Politiche e non di Biologia ciò rappresentasse una dimenticanza di non poco conto. Ho rilevato come tra i relatori non fosse presente, perchè non invitato, l'incaricato d'affari di quel nuovo paese che è il Kosovo, che anche l'Italia ne ha riconosciuto la sua indipendenza. Al forte imbarazzo dell'organizzatore (che ha pensato di invitare, dice lui, solo i paesi prossimi alla candidatura EU) è seguita la promessa di un prossimo incontro pubblico con il dottor Albert Prenkaj.

Per approfondimenti sul rapporto tra Ue e Serbia consiglio la lettura dell'articolo a firma di Miodrag Lekic, ex ambasciatore di Jugoslavia a Roma, sul sito di Affari Internazionali


martedì 3 marzo 2009

PRIMAVERA IN KOSOVO



Giovedì 26 febbraio 2009 al Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino, è stato proiettato il documentario “Primavera in Kosovo”. Ad un anno esatto dall'anniversario dell'indipendenza del Kosovo, l’Associazione Culturale Italo-Albanese “Vatra” ha proposto al pubblico torinese una testimonianza di quell’evento raccolta in video da Erjon Kadilli. Il giovane regista nato nel 1983 a Durazzo, da tanti anni in Italia per studiare cinema, con questo suo ultimo lavoro intende far rivivere i volti e i luoghi che hanno segnato la storica giornata di un anno fa. Al centro della video-narrazione c’è la gente kosovara, i suoi sogni e le sue speranze. Il documentario è un viaggio emozionante e commovente nell'esistenza quotidiana di persone comuni come Perparim, Rrahman, Xhelal, il Prof. Kelmendi nella loro Pristina. Alla proiezione pubblica hanno partecipato centinaia di ospiti, tanti giovani. Tra il pubblico si sono visti anche il filosofo torinese Gianni Vattimo e vari intellettuali albanesi e italiani. Alla conclusione del video è seguito un interessante dibattito con interventi del prof. Guido Franzinetti dell’Università del Piemonte Orientale e il prof. Vincenzo Cucci, Presidente della Federazione delle Associazioni Albanesi, Italo-Albanesi e Arbereshe del Piemonte, moderato dal giornalista Benko Gjata, corrispondente dall’Italia dell’A.T.A. (Agenzia Telegrafica Albanese).




L’evento proposto dall’Associazione Culturale Italo-Albanese “Vatra” è stato realizzato con il patrocinio del Consolato Generale dell’Albania a Milano, della Federazione delle Associazioni Albanesi, Italo-Albanesi e Arbereshe del Piemonte, e dell’Ufficio di Rappresentanza della Camera di Commercio di Tirana a Torino.


domenica 1 marzo 2009

SRI LANKA: LA VOCE DEL CONIGLIO

SRI LANKA: THE DAY AFTER. Con l'uccisione di Velupillai Prabhakaran, storico leader fondatore dell’LTTE e la conquista da parte dell'esercito dell' ultima striscia di terra in mano ai guerriglieri si è definitivamente concluso un conflitto che ha macchiato lo Sri Lanka con il sangue di circa 100 mila persone. leggi l'articolo



SRI LANKA: UNA CRISI UMANITARIA CHE NON PUO' PIU' ATTENDERE. Da più di trent’anni lo Sri Lanka è alle prese con gravi problemi interni, anche se è dall’inizio dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1948, che la maggioranza cingalese di fede buddista è in lotta continua con la minoranza tamil di religione induista. leggi l'articolo



MOSAICO FOTOGRAFICO DALL'ISOLA. guarda le immagini






SRI LANKA: CARTOLINE KOSOVARE. Lo scontro tra forze governative e i gruppi armati dei tamil [il piu' radicale dei quali e' l'LTTE, conosciuto come le Tigri Tamil], per certi versi affine a quello kosovaro tra serbi e albanesi, ha raggiunto, oggi, livelli impressionanti di violenza. leggi l'articolo



SENTENZA DEL TRIBUNALE DELL'AIA CONTRO I CRIMINI COMMESSI IN KOSOVO


Il Tribunale Penale Internazionale dell'Aia ha assolto oggi l'ex presidente serbo Milan Milutinovic dall'accusa di avere commesso crimini di guerra e contro l'umanità durante la guerra in Kosovo, fra il 1998 e il 1999. Milutinovic è stato processato per aver tentato di scacciare gli albanesi dal Kosovo con "una campagna sistematica di terrore e violenza". Secondo le accuse del procuratore Thomas Hannis si voleva così modificare la composizione etnica della regione per assicurarsi il controllo serbo sul territorio, costringendo alla fuga 800.000 albanesi. Il Tribunale internazionale ha stabilito che l'ex presidente non aveva autorità sulla campagna di terrore condotta contro gli albanesi in Kosovo. Il suo ruolo non è stato provato, come neppure è stato provato che abbia avuto un controllo sulle azioni delle forze militari e di polizia della ex Jugoslavia. Milutinovic, secondo i giudici, "non aveva un controllo diretto" sull'esercito federale della ex Jugoslavia. In pratica, "era Slobodan Milosevic, qualche volta chiamato Comandante Supremo, che esercitava l'autorità di comando sull'esercito durante la campagna della Nato" si legge nella sentenza. Sono stati condannati, invece, sempre per le stesse accuse, a pene comprese tra i 15 e i 22 anni di reclusione, gli altri cinque coimputati. I pezzi da 90 della politica e delle gerarchie militari della Serbia di quegli anni sono l'ex vicepresidente jugoslavo Nikola Sainovic (22 anni di prigione), l'ex generale dell'Esercito Nebojsa Pavkovic (22 anni di prigione), l'ex generale di polizia Sreten Lukic (22 anni di prigione), gli ex generali dell'Esercito Dragan Ojdanic e Vladimir Lazarevic (entrambi 15 anni di prigione). Questo rappresenta un fatto di assoluta importanza. Si tratta infatti del primo verdetto emesso dal Tpi contro autorità serbe per i fatti avvenuti durante la guerra in Kosovo nel 1999.
La pulizia etnica (compiuta dai serbi) giustifica la violazione del diritto internazionale in Serbia, e quindi l'intervento Nato in Kosovo? La domanda che mi ha sempre turbato, con questa sentenza, ha avuto una risposta. Il Tpi, con questa condanna, ha certificato che sono state commesse delle grandi atrocità in Kosovo, di fronte alle quali ogni sacrosanta "ragione di Stato", ogni violazione del diritto internazionale, è nulla rispetto alle migliaia di morti commesse e centinaia di migliaia di allontanamenti forzati. La ragion d'essere di quanti sostenevano che l'intervento della Nato fosse una violazione del diritto internazionale, secondo il mio modestissimo punto di vista, non sta più in piedi. Sino ad ora si è cercato, forzatamente, di mettere in secondo piano la pulizia etnica e si è preferito appigliarsi, in questo preciso contesto, alla sovranità della Serbia pur di non giustificare mai l'indipendenza del Kosovo. Questa sentenza fa chiaramente capire che è stato il governo serbo il carnefice di se stesso. Perchè gli stessi sostenitori di questa teoria in altri teatri come la Cina e Israele, giusto per citarne due, fanno valere quello che in Kosovo hanno sempre negato?
I diritti umani, la libertà, ogni libertà delle persone, vanno sempre e comunque garantiti. Non bisogna mai, a seconda delle opportunità, sventolare una volta la bandiera della sovranità dello Stato, un'altra volta quella dei diritti umani e dell'autodeterminazione di un popolo.


KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO