domenica 27 settembre 2009

CIO' CHE ERAVAMO

Diario di una donna serba del Kosovo Methoija

Il libro che questa settimana mi è capitato tra le mani è quello di Radmila Todic-Vulicevic, un diario che narra le esperienze personali dell'autrice vissute in Kosovo prima, durante e dopo i bombardamenti della Nato. Frammenti di eventi quotidiani racchiusi tra il 3 Aprile 1998 e il 4 ottobre 2002. Riflessioni di facile lettura che catturano il lettore. Stessa fluidità che si nota leggendo Serbia Hardcore, ma che a differenza di questo, non si intravede nessuna critica a quel regime violento che Milosevic aveva creato e del quale, appunto, Velickovic era un fermo oppositore. L'autrice nella prima parte del libro racconta un Kosovo surreale. Racconta un Kosovo -un anno prima dei bombardamenti Nato- in preda alle attività criminali dell'UCK che spargevano terrore. Racconta di famiglie serbe che già nel 1998 scappavano dal Kosovo (non erano gli albanesi che, in file chilomentriche, fuggivano?). Racconta alcune volte di uccisioni di uomini e bambini serbi, molte altre non specifica chi sono questi morti, lasciando intuire che si tratta ancora di serbi. Una sola volta (1 marzo 1999) afferma che "un albanese è morto e altri due sono rimasti feriti". Il 12 settembre 1998 nel suo racconto l'autrice parla della scoperta di una fossa comune di uomini serbi. Per Radmila Todic-Vulicevic l'anno 1998-99 è l'anno del terrore albanese che crea panico e avrebbe potuto mietere vittime quasi ogni giorno se non ci fosse stato l'eroico esercito serbo a difendere la popolazione civile. In un passaggio di questa prima parte, riferendosi all'UCK, dice "Dio perchè stanno scaricando tutto questo odio e rabbia su di noi?"; e ancora "attacchi all'armata e alla polizia non si fermano". In questa prima parte, non solo non accenna ad alcun fatto atroce commesso dai serbi, ma accentua la forza e lo spessore che l'UCK non poteva avere. Per coloro che non sono mai andati in Kosovo ricordo, invece, che sparsi un po' ovunque ci sono numerosi monumenti che ricordano guerriglieri dell'UCK morti, ma soprattutto intere famiglie albanesi sterminate nel 1998. L'autrice non riesce a distinguere, cosa comune tra i grandi fans del regime e del nazionalismo serbo, le enormi responsabilità di Milosevic e dei suoi luogotenenti nell'aver avviato questa sporca guerra le cui conseguenze oggi, a differenza di ieri, si riversano sui cittadini serbi del Kosovo. La seconda parte del libro è molto interessante. Dico sinceramente. E' la prospettiva di una donna serba, che vive il quotidiano fatto di paure e di ansie, di incertezze e speranze. Analisi di una mamma che durante il periodo dei bombardamenti cerca di rassicurare i figli e che per loro trova la forza di andare avanti giorno dopo giorno, bomba dopo bomba, raccontati da una prospettiva veramente interessante e nuova.
La prima parte, deludente e poco veritiera, è resa ancor più allucinante dalla prefazione di Sanda Raskovic Ivic, Ambasciatrice di Serbia in Italia, con un testo che si commenta da solo.


"Il diario inizia un anno prima dei bombardamenti, nei tempi in cui l'UCK si scatena e in cui ogni giorno lascia il territorio almeno una famiglia serba, che non riesce a sopportare il terrore esercitato dai separatisti albanesi, che non riesce a sopportare l’incertezza e l’ansia del domani. Sono i tempi del sospetto verso la sincerità e l’autenticità sia dei politici locali, sia dei rappresentanti della comunità internazionale, che, come i visitatori dello zoo, si alternavano e si costruivano una loro idea, sempre condita dagli interessi delle grandi potenze. Sono descritte le distruzioni dei ponti, degli ospedali, delle ferrovie, dei treni con i passeggeri a bordo, delle colonne dei rifugiati. “Come faccio a mettere in una borsa l’anima di casa mia?” L’odio è diventato l’energia politica dei “democratici” del “nuovo Kosovo”, tutti ex combattenti dell’UCK, molti dei quali coinvolti in attività criminali. Il Kosovo e Metohija è stato “pulito etnicamente”: dal giugno del 1999, 250.000 serbi, rom e altri non albanesi se ne sono andati, sono state sequestrate 1.300 persone e uccise altre 1.000, distrutte 156 chiese, comessi atti vandalici contro 67 cimiteri. In Kosovo sono rientrati solamente 1.200 serbi".

Ciò che eravamo
collana: Frontiere del presente
editore: La città del sole
ISBN: 8882924483
euro 12

venerdì 25 settembre 2009

KOSOVO E DINTORNI

[In esclusiva per i lettori del blog una poesia di Pompeo Mongiello]

Piccoli lembi di terra,
che all'orizzonte appaion,
come insignificanti strisce,
verde, terra bruciata, e di qualche altro colore,
scaturir abe li conflitti più impensati?
Che nun fusser
In quel de Kosovo,
Interessi de nazioni,
che d'Europa nulla abe
at che facere?
Ed intanto ne le piazze
se versaron
sangue inutile
de chi nulla
spartir nun abe?
Gente mite
ed aggraziata,
Che cerca sol di esser locata?



Chi è Pompeo Mongiello:
Chirichetto e aiutante organista seienne nel suo piccolo paese natio del sud. Animatore sociale e sportivo, nonche catechista nella Parrocchia di San Giuseppe all´Aurelio a Roma fino a quanto non parti soldato. Cavaliere della Cristianità e della Pace e Commendatore di Giustizia del Sovrano Ordine Costantiniano di San Giorgio. Artista e grande poeta. Dr. h.c. in letteratura vive attualmente a Bratislava.

Altre poesie di Mongiello sono disponibili su PoesieRacconti.it

martedì 22 settembre 2009

A RICORDO DI KOSOVO

(di Pompeo Mongiello)

E lo senno
perse lo lume
ne la notte de foco,
in quel de Kosovo.

Cadean li anni acerbi,
come secche foglie,
da lo vento nemico
portate lontane
senza ritorno.

Contar le marmoree petre
a niun giova,
nun so´numeri,
ma aneme patenti

Mongiello ha pubblicato a Milano nel 1978 il libro di poesie: Diagnosi e profilassi, e nel 1979 il libro di poesie: Pensieri

lunedì 21 settembre 2009

L'AUTUNNO CALDO DEL KOSOVO


Nei dieci mesi trascorsi dal dispiegamento ufficiale della missione europea, i rapporti tra Eulex (la Missione della EU) e le autorità kosovare sono stati segnati da un clima di sostanziale collaborazione, anche se non sono mancate le tensioni ancor prima del suo dispiegamento sul terreno: mi riferisco all’esplosione avvenuta a Pristina presso la sede dell’I.C.O. (International Civilian Office). Era la notte del 14 novembre dell’anno scorso quando tre tedeschi vennero colti sul luogo dell’attentato ed accusati di essere gli artefici. A far crescere la tensione nei mesi a noi più vicini è stata l'intenzione di Eulex, annunciata ad inizio agosto, di firmare un accordo con Belgrado per facilitare la collaborazione tra i rispettivi organi di polizia. Per Eulex l’accordo è di vitale importanza, un’ottima strategia per risolvere i problemi legati al crimine organizzato, il traffico di armi, droga e quant’altro in una zona molto calda. Una decisione condivisibile sul piano tecnico (è ora che le frontiere a Nord con la Serbia, veri e propri colabrodi, diventino degne di questo nome), ma fallimentare sul piano politico-diplomatico (l’accordo è stato raggiunto tenendo fuori il governo di Pristina). Le reazioni delle autorità politiche kosovare non si sono fatte aspettare. Il Presidente e il Primo Ministro del Kosovo hanno dichiarato più volte come non possa esserci nessun accordo senza il loro consenso e partecipazione nelle trattative e come le istituzioni kosovare non permetteranno a Belgrado di esercitare la sua influenza in Kosovo attraverso accordi e altri meccanismi. Pristina è arrivata a porre una condizione difficilmente accettabile per Belgrado, e cioè la firma all'accordo in cambio del riconoscimento. Pristina considera l’accordo lesivo della propria sovranità, sia perché le autorità kosovare sono state escluse dalle trattative, sia perché a livello politico l’accordo presupporrebbe lo scambio di informazioni con lo stato serbo, principale avversario dell’indipendenza del Kosovo. L’accordo in questione, che prevede lo scambio di informazioni e dati tra Serbia (polizia serba) ed Eulex, è un primo e decisivo passo in avanti della Serbia verso l’Europa. Certamente anche tra le istituzioni serbe non sono mancati i mal di pancia per la firma di questa collaborazione con Eulex. Per l’opposizione serba, infatti, raggiungere un accordo con Eulex significa anche accettare de facto il piano Ahtisaari e l’indipendenza del Kosovo in esso prevista (Kostunica è stato molto chiaro su questo). Questa evoluzione-involuzione dei rapporti tra Eulex, le autorità serbe e quelle kosovare, sta facendo da sfondo ad una situazione che in Kosovo si sta facendo pesante. Quello che si registrano in Kosovo, a Pristina, ma soprattutto nella calda cittadina di Mitrovica, sono le continue tensioni, molto spesso e per più di una volta, sfociate in veri e propri scontri con lancio di sassi e di ordigni, tra i due principali acerrimi nemici, ovvero tra serbi ed albanesi del posto. Questi scontri, avvenuti nel cuore dell’estate non si sono ancora arrestati. Il leitmotiv è l’autorizzazione da parte del governo di Pristina alla costruzione delle case degli albanesi che vivevano precedentemente nella zona a nord di Mitrovica. La diplomazia si era messa al lavoro per raggiungere un tiepido accordo di massima che prevedeva l’inizio della costruzione delle sole case nel quartiere di Kodra Minatore/Mikronaseljie parzialmente distrutte (ancora visibili) e per un numero limitato di esse. Parallelamente si doveva procedere con l’avvio dei lavori per la costruzioni di case serbe nella parte sud del Kosovo. Il fragile accordo ha retto poco. La vicinanza del nemico, le paure fomentate da questo o quel gruppo, gli incubi tra la popolazione generati dai nemici della pace duratura, hanno nuovamente riscaldato il clima a Mitrovica ed in Kosovo. In quella che dalla fine dei bombardamenti Nato è considerata la fortezza serba in Kosovo, in verità, le tensioni ci sono sempre state tutte le volte che si cercava di far dialogare le due parti in causa. Stessi incidenti si sono verificati a Suhadoll un altro quartiere a nord di Mitrovica, dove sono concentrate alcune famiglie albanesi. Il lancio di sassi è coinciso con l'avvio dei lavori per la costruzione della rete idrica nelle case degli albanesi. I lavori, bloccati per le continue tensioni e proteste dei vicini serbi, non sono ripresi neanche dietro le pressioni del sindaco di Mitrovica che ha cercato di coinvolgere Unmik e la Kfor. Se a Mitrovica il clima non è dei migliori, tensioni e malumori si registrano anche a Pristina. E’ sempre Eulex al centro dei problemi. Sono, per ora, sempre i ragazzi di Vetevendosje a creare scintille. Una presentazione fresca e assai colorita sul clima che si respira in Kosovo e sulla giornata che ha visto protagonisti gli attivisti del Movimento capeggiato da Albin Kurti, (che hanno preso di mira le autovetture di Eulex), è riportata su the nowhere man goes wild’s blog che vi invito a leggere. Il caldo delle tensioni a Mitrovica, peraltro ancora non risolte, le difficolta di Eulex ad operare sul terreno, i risentimenti tra la popolazione civile sempre più insofferente per le imposizioni che riceve dall'alto, le imminenti elezioni locali del 15 novembre e l'accesa battaglia per le presunte elezioni politiche nella primavera del 2010 (fortemente volute da Ramush Haradinaj) lasciano facilmente intuire che ci sarà un caldo autunno ad attenderci.


sabato 19 settembre 2009

IL COSTO DEI MILITARI ITALIANI IN KOSOVO


I soldati dispiegati in Kosovo, secondo i dati della Kfor, sono circa 14 mila. Di questi, 1.935 sono italiani. Sono indispensabili tutti questi soldati nel Kosovo di oggi? Ci possiamo permettere i costi di queste spese militari? Sono domande legittime che dovremmo porre ai nostri politici.

La tragica morte che ha raggiunto i sei parà nel recente attentato in Afghanistan (vero teatro di guerra) ci dovrebbe spingere a riflettere sulla sorte dei militari italiani che prestano servizio in Kosovo (che non è, oggi, un teatro di guerra). Dai giornali alle trasmissioni televisive, si è letto e visto di tutto e il contrario di tutto in questi ultimi giorni. Sinceramente credo che il ritiro, per quanto riguarda l'Afghanistan, sia segno di immaturità nei confronti dei nostri alleati, per gli impegni presi con le Istituzioni Internazionali (impegni condivisibili o meno), e fonte di pericolo verso chi si trova costretto a restare nell’inferno afghano, siano essi militari Nato o popolazione civile. Sicuramente sarebbe stato meglio non avventurarsi in questa guerra. Anzi, sarebbe molto meglio non combattere nessuna guerra, ma mi rendo perfettamente conto che questo non è il migliore dei mondi possibili e che trovandoci nel pieno di una vera guerra, che miete numerose vittime, sia doveroso avviare un'approfondita analisi, lasciando fuori le strumentalizzazioni politiche. Tuttavia, in questo discorso si potrebbe forse anche includere la questione "Kosovo". Pur condividendo l'intervento Nato del 1999 in Kosovo, mi trovo oggi, a dieci anni di distanza, a domandarmi se non sia il caso, di fronte ad una situazione sociale e politica grosso modo normalizzata, di dimezzare il numero dei militari presenti lì. Si parla di crisi economica mondiale, di licenziamenti, di disoccupazione, di soldi che non ci sono, di riduzione del personale civile internazionale dispiegato in Kosovo (la cui utilità per la società e le istituzioni locali è senza dubbio preferibile a quella dei soldati, specie in contesti non pericolosi), di tagli per gli aiuti umanitari, si parla di tutto, ma dei circa 14.000 soldati della Nato (di cui 1.935 italiani, secondo i dati della Nato-Kfor aggiornata al 3 giugno 2009) nessuno ci dice nulla. I soldati dispiegati in Kosovo che continuano a restare, negli anni, inalterati nel numero hanno un costo. Sono indispensabili tutti questi soldati in Kosovo di oggi? Ci possiamo veramente permettere i costi di queste spese militari? Qual è il fine della loro presenza in questo piccolo paese uscito dalla guerra 10 anni fa? Sono domande legittime che dovremmo porre ai nostri politici, anche se temo che, semmai rispondessero, lo farebbero con il silenzio o le solite strumentalizzazioni. E' sotto gli occhi di tutti l'onestà e l'impegno che i nostri militari hanno prestato in Kosovo, uno dei primi contingenti ad arrivare sul posto e a difendere la popolazione serba ed i luoghi di culto ortodossi, a lavorare tra e per la società civile con uno spirito che molti ci invidiavano e ci invidiano ancora. Non è in discussione il servizio prestato dai soldati italiani, quanto il fatto che, di fronte ad uno scenario completamente migliorato rispetto a dieci anni orsono, e ad una crisi che in Italia non si ricorda dagli anni '40, sarebbero più che sufficienti la metà delle forze Nato oggi dispiegate. Va ricordato, anche se i nostri parlamentari per compiacere le potenti lobby militari non ne parlano mai, che i circa 2.000 soldati italiani e tutto l'armamento bellico al loro seguito, hanno dei costi ingenti,  di gran lunga maggiori rispetto alle mansioni che devono espletare. Una cosa è lo scenario di guerra afghano, altra cosa i milioni di euro che si continuano a spendere per le operazioni militari, in tempo di pace, in Kosovo. Tra queste voci rientrano gli alti salari che i soldati percepiscono (circa 4.500 euro al mese), le spese per i continui voli aerei dei militari da e per l'Italia, le spese di mantenimento delle strutture e dei veicoli in loco e da ultimo i milioni di euro per costruire un intero campo base, Villaggio Italia, chiamato appropriatamente villaggio perchè all’interno delle sue strutture permanenti ci sono indubbiamente più spazi di relax che altro. Se avete in mente le classiche caserme di provincia o la polvere e i containers dell’Afghanistan, siete fuori strada. Dovete prendere come punto di riferimento grandi chalet di legno e cemento, di quelli che si trovano nei nostri paesaggi alpini, ed immaginarli sistemati a mò di villaggio, con tanto di pizzerie, bar, sala intrattenimento, mensa-ma-che-mensa,ecc., per avvicinarsi alla realtà. Non è un’esagerazione se dico che la base militare è full optional, dotata di comodi divanetti, tavoli da biliardo, signorine del posto che servono bevande, rigorosamente made in Italy, e sigarette italiane senza monopolio, a prezzi da vero e proprio spaccio. Prosciutto, grana e bocconcini di mozzarelle non mancano mai. Si mangia solamente cibo italiano, per problemi legati all’uranio impoverito, dicono. Ah!! Però! L’uranio impoverito. Non si poteva pensare un posto più caldo e confortevole di quello che il buon gusto italiano ha creato nella base italiana di Peja/Pec. D’altra parte non potevamo certo correre il rischio che i nostri soldati si annoiassero durante i sei lunghi mesi di missione (passati quasi sempre in caserma, come fossero alla Cecchignola di Roma, ma con salari e costi immensamente più alti). Questo scenario si presenta simile al Quartiere Generale della Kfor a Pristina. La stradina dove si trovano tutti i locali per la ricreazione (pub olandesi, pizzerie e birrerie e negozi, meglio conosciuti come PX, che vendono tutto a prezzi stracciati) sembra ricordare, quanto al paesaggio, un tipico posto turistico di montagna. Più che a Malè sembra di trovarsi a Camigliatello. Va riconosciuto però che quelli non sono direttamente soldi di noi italiani, ma della Nato (il cui contribuente è anche l’Italia, però!). Non se la passano per niente male neanche i nostri 415 carabinieri dell’M.S.U a Pristina (fonte: Arma dei Carabinieri). Raccomando a tutti quelli che si trovano a passare in Kosovo di farsi ospitare per una cenetta nel loro ristorante, assaggiare un'ottima pizza cotta al forno a legna o riscoprire il profumo di Sorrento sorseggiando un buon limoncello. Non credo si possa presto avviare un serio dibattito politico in Parlamento per discutere dell’impegno dell’Italia nei teatri di guerra, di exit strategies in Afghanistan, di costo delle operazioni militari all’estero e della rivalutazione dell’impegno umanitario e di cooperazione. Spero, però, che gli italiani possano al più presto aprire gli occhi per vedere gli eccessi e veri sprechi delle operazioni militari all’estero che una ricca, e strapagata, classe politica ci tiene nascosti.

articolo pubblicato sul sito di Peacelink e Report On Line


venerdì 18 settembre 2009

BABY BULLISMO AI DANNI DI UN RAGAZZINO KOSOVARO

Storie di ordinaria follia in un Italia sempre più in preda ad episodi razzisti

Un ragazzino kosovaro di tredici anni costretto a cambiare scuola perché preso in giro dai compagni di classe. Non ne poteva più di subire insulti razzisti, di ascoltare offese che lo ferivano, così ha chiesto ai genitori di cambiare scuola. Questo nuovo episodio di baby-bullismo a sfondo razziale che scuote Treviso, città simbolo del potere leghista in Veneto è apparso oggi su Repubblica.it

martedì 15 settembre 2009

I ROM: DAL KOSOVO AL CASILINO 900 (SECONDA PARTE)

Storia incredibile di alcune famiglie rom, imparentate tra loro, che dagli anni novanta in poi, quando il clima sociale e politico in Kosovo cominciava a farsi pesante, lasciarono le loro case per raggiungere l'Italia. Pensavano di essersi lasciati alle spalle l'inferno. Arrivarono, invece, al CASILINO 900.

Nella soleggiata giornata di fine agosto, all'interno del Casilino 900 vengo accolto da Feta. Così dice di chiamarsi un giovane poco più che ventenne che mi fa conoscere i suoi parenti e alcuni connazionali. Erano le cinque in punto del pomeriggio. Lo ricordo perfettamente perchè guardai l'orologio nel momento esatto in cui mi disse che aveva degli impegni a partire dalle sei: doveva rendersi disponibile per aiutare i suoi a preparare la cena del Ramadan, il mese di digiuno iniziato da poco.
I rom kosovari che vivono nel campo sono, a quanto sembra, di fede musulmana, anche se è altrettanto frequente trovare in Kosovo rom di fede ortodossa. In quella che era una regione serba i rom, infatti, erano abituati a vivere tra due fuochi -in mezzo all'aspro conflitto tra serbi ed albanesi- e, per la loro stessa sopravvivenza, avevano sempre cercato di adattarsi pur di non scontentare nessuno. E' anche per questa ragione che parlano sia serbo che albanese, e sono di fede musulmana o ortodossa.
Tutto ciò però non è bastato a risparmiarli dal conflitto degli anni '90. Rimanevano sempre rom schierati, consapevolmente o meno, con il nemico, albanese o serbo che fosse. E, per evitare l'odio nei loro confronti, molti di essi, come i parenti di Feta, sono dovuti scappare dal Kosovo, lasciare tutto ciò che avevano -casa, amici, famiglia, lavoro, progetti- nella speranza di trovare un posto in cui poter vivere in pace. Devo ringraziare proprio lui, Feta, o Farum, como poco prima mi aveva detto di chiamarsi, se riesco a superare i loro timori in questa mia giornata nel Campo, la paura e la diffidenza dei suoi abitanti verso tutto quello che viene dall'esterno. Feta era appena un bambino quando è giunto in Italia per la prima volta. A 11 anni è partito da Pristina con i genitori e i fratelli più grandi alla volta di Belgrado. Ricorda però poco di quel viaggio e cerca di ricostruirlo, tappa dopo tappa, con l'aiuto dei suoi genitori. Da Belgrado, dopo una breve sosta da alcuni conoscenti, prendono un altro autobus per una nuova meta. "Non sapevamo quale sarebbe stato il nostro viaggio intermedio" interviene la mamma di Feta nel racconto del figlio, "sapevamo soltanto che volevamo venire in Italia". Così, dopo due settimane di pellegrinaggio "quasi clandestino" riescono a superare la frontiera italiana e a lasciarsi alle spalle la città di Trieste ed il Kosovo, che in quei mesi stava letteralmente bruciando di odio. Sono proprio i genitori di Feta che, rivivendo tutta la fatica del viaggio, doloroso dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto psicologico, ricordano date e luoghi, giorni e vie del loro lungo viaggio. Credo che quando un uomo si scontra con "l'assurdo" non può fare a meno di ricordare per filo e per segno ogni cosa di quella circostanza, persino l'odore del posto. E' proprio quello che fanno con me i coniugi Hamdi nel ricostruire la loro fuga. Mi parlano di una Pristina a me sconosciuta, dove ogni cosa sembra diversa dalla città che ricordo io. Le vie solo con il nome serbo non mi dicono nulla. Riesco a capire il luogo dove vivevano prendendo come riferimento luoghi generali e piazze. Anche la Pristina che io presento è irriconoscibile ai loro occhi. In quel momento, mentre parlo dell'attuale capitale kosovara, la madre di Feta con rapido gesto tira fuori dal suo borsellino il biglietto dell'autobus che l'ha portata qui in Italia. Il biglietto integro e gelosamente custodito riporta, scritto in lingua serba: ore 11, 20 maggio 1999, Pristina. Come un fiume in piena, la signora Hamdi parla allora dei momenti impietosi vissuti alla Questura di via Genova a Roma. "Si, quella di via Genova, numero..." non lo ricorda la moglie di Ismail, ma tiene a precisare che proprio lì ha chiesto asilo politico per lei e i suoi figlioletti. E' da giugno del '99 che tutta la famiglia è rinchiusa, questo credo sia il verbo adatto, all'interno del Casilino 900. A detta della famiglia Hamdi poco o nulla è cambiato da allora. E' aumentato sicuramente il numero dei rom kosovari. Non sono cambiate per nulla invece le promesse di miglioramento che di volta in volta si sono rinnovate negli anni, e che puntualmente sono state disattese. Le paure e le incertezze, sebbene oggi più di ieri si parli di clima razzista e xenofobo, sono sempre le stesse. Il freddo rapporto con i vicini italiani, idem. I circa 40 rom arrivati al Casilino 900 alla fine degli anni novanta sono diventati oggi oltre 110. Parliamo quindi di almeno 50 bambini nati sul territorio italiano, e quindi, cittadini italiani a tutti gli effetti. Il numero dei bambini è, in effetti, impressionante e balza subito agli occhi. Tra loro anche qualche adoloscente che, pulito e ordinato, mi saluta con pieno accento romano di Roma. Riesco a scambiare qualche parola con i cugini di Feta che frequentano le scuole medie; uno di loro, il figlio di Resat Prekuplja, frequenta invece il secondo anno dell'istituto alberghiero. Sono giovani rispettuosi e istruiti che frequentano regolarmente le scuole ed hanno amici italiani. Guardano lontano loro, ma sembrano ancora poche eccezioni, non sufficienti a colmare il gap venutosi a creare con la società italiana al tempo dei loro genitori. Sicuramente, però, sono una testimonianza da considerarsi significativa, che andrebbe sostenuta e rafforzata, perchè questi ragazzi dimostrano chiaramente che con l'istruzione le loro condizioni possono migliorare. Forse, quello che dicevo nella prima parte, quando mi riferivo alla pulizia degli spazi in comune per poter vivere bene loro stessi ed i loro bambini, ha radici che iniziano proprio da lì, l'istruzione. Solo frequentando le scuole italiane i giovani rom hanno l'opportunità di imparare e confrontarsi con i loro coetanei, di superare finalmente quelle odiose barriere alzate dall'ottuso pregiudizio umano. Mentre rifletto su tutto ciò, Feta mi riporta con i piedi per terra, nella realtà che vive ogni giorno lui. Ventuno anni, sposato e con due figli, ha studiato con i salesiani e dopo la terza media ha deciso di trovare un lavoro. Si trova oggi impiegato con un'associazione italiana come intermediario della comunità rom. Ogni mattina, sul pulmino del comune, accompagna i bambini a scuola, si relaziona con gli insegnanti e informa i genitori di conseguenza. Ascolta, assorbe e riferisce. E' lui il primo a credere nell'importanza dell'istruzione, ma è altrettanto consapevole del difficile cammino che bisogna percorrere. I bambini rom frequentano la scuola abbastanza regolarmente, si trovano bene, ma la loro motivazione deve fare a pugni con tanti problemi. "Come puoi vedere", mi dice con fermezza e tristezza negli occhi, "nel campo non c'è elettricità, i servizi igienici e l'acqua non potabile si trovano solo fuori dalle case". Questo significa che "d'inverno, quando fa buio presto, i bambini, pur volendo, non possono studiare nè leggere come si deve". In quel periodo dell'anno, "quando fa molto freddo i nostri bambini non riescono a lavarsi giornalmente e quando vado a scuola a volte le maestre sottolineano che i bambini puzzano". Non fa giri di parole Feta, e con due frasi arriva al nocciolo del problema, che non può certo illustrare con facilità alle insegnanti, senza dubbio ignare, almeno in parte, delle condizioni di vita nel Casilino 900; lo presenta a me, che mi trovo, seppur momentaneamente, insieme a lui a condividere il suo inferno quotidiano. La questione sta qui. Solo se c'è un'intenzione reale da parte delle istituzioni locali e nazionali ad affrontare, seriamente, la questione immigrazione e non in maniera grossolana per pura strumentalizzazione politica, l'integrazione delle varie comunità potrà alla fine essere percepita come carta vincente che arrichisce il panorama italiano, linfa vitale di una società invecchiata. Solo con politiche serie, dove al rigore e alla determinazione seguono i diritti e le opportunità, le varie comunità, siano esse di etnia rom, curda, marocchina, peruviana o cinese che si voglia, potranno acquisire lo spessore e il ruolo che giustamente si meritano dentro una società democratica ed aperta al mondo, che pretende di essere competitiva per avanzare nel terzo millennio.


leggi la prima parte

guarda il reportage fotografico

L'intero reportage è stato pubblicato sul settimanale Carta qui-lazio numero 32 del 2009

sabato 12 settembre 2009

LA KAFANA DI MITROVICA

Foto minimalista, nessun paesaggio raffigurato nè interessanti primi piani. Se per voi non è nulla di eccezionale o rappresenti soltanto una foto come tutte le altre, per il sottoscritto racchiude tante forti emozioni. Ho spulciato con cura tutte le foto che conservo del Kosovo e quando sono arrivato a questa, ho iniziato a sentire il profumo che emanava la rakia al gusto di mela cotogna e rivivere, nella mia testa, gli anni passati piacevolmente in Kosovo. Nella foto è raffigurato un tipico bar serbo, kafana, dove perlopiù gente adulta passa qualche ora in piacevole compagnia tra una tazza di caffè turco e tanta buona rakia, la loro grappa artigianale. Il chioschetto, molto spartano e abbastanza trasandato, situato subito dopo il ponte nella parte nord di Mitrovica, era il luogo dove alcune volte trovavo la tranquillità di cui avevo bisogno dopo giornate convulse e frenetiche. Andavo molto volentieri in questa kafana che non aveva nè un nome nè altro all'infuori di pentolini per preparare il caffè, una varietà di rakia rigorosamente preparata in casa e tante casse di acqua frizzante, utili a rinfrescare il palato dopo ogni sorso del distillato. Sorso di rakia e un goccetto d'acqua, sorso di rakia e via con l'acqua frizzante. Mi piaceva andare in questo posto così insolito, dove si respirava un'aria diversa rispetto alle nuove caffetterie che stavano spuntando come funghi. Sembrava che il tempo si fosse fermato agli anni '80. Anche le persone che lo frequentavano, a volte serie e pensierose, a volte intente a parlare più animatamente, sembravano vivere un'altra dimensione. Soltanto le notizie che scorrevano in televisione si riallacciavano alla realtà. Dietro le tende ingiallite appese alle finestre, nella più totale indifferenza dei passanti, c'era questo mondo del quale sono rimasto attratto. Ricordo la prima volte in cui sono entrato nella kafana. Posso immaginare che cosa abbiano potuto pensare gli assidui frequentatori quando quel giovane straniero, che non conosce la loro lingua, ha messo piede in questo posto sconosciuto anche ai giovani di Mitrovica. Chi è questo? si saranno detti, cosa vuole mai da questo posto? Ammetto che la prima volta non ci sono rimasto a lungo, ma dalla seconda volta in poi mi sono fatto coraggio ed ho cominciato ad aprire bocca, a farmi spiegare come si diceva in serbo questo e quello, a gesticolare e cercare di capirci l'un l'altro, a dire chi ero, da dove venivo e cosa facevo. La terza volta mi sono permesso di pagare un giro di rakia al ristretto numero di conoscenti. Incontro dopo incontro, con i quattro amici del bar, abbiamo rotto la barriera della diffidenza. Quando mi trovavo per caso a passare da lì, aprivo la porta e salutavo lo zio al bancone, che ricambiava il saluto. Con il sorriso sul volto, portandosi la mano chiusa in direzione della bocca, sapendo che mi paceva la rakia al gusto di mela cotogna, mi diceva in lingua serba " vieni a farti un bicchierino". Lo ricordo ancora! Ricordo tutto come fosse ieri.

articolo pubblicato sul sito di Report On Line

giovedì 10 settembre 2009

L'AMORE ALTRO. UN'ODISSEA NEL KOSOVO

Vi segnalo questo romanzo da poco uscito nelle librerie che, ovviamente, ha come sfondo il Kosovo. Per quel poco che ho letto mi pare di trovarmi di fronte ad una vera e propria favola, tanto fantastico mi pare lo scenario in cui i protagonisti si muovono.

La vicenda si svolge nel Kosovo, protagonisti due veneti, Boris e Giulia, che si recano a Prizren a visitare Clizia, la sorella di lei, medico volontario all’ospedale dell’International Assistance. Giunti a destinazione, i due giovani entreranno presto nel mirino dei trafficanti di droga e gas tossici che trasformeranno quella che per loro doveva essere una piacevole gita turistica al parco nazionale di Brezovica in un incubo che comincerà col rumore di uno sparo e darà avvio a una lunga catena di morti e di sogni distrutti. Perché in questo racconto tutti hanno un sogno da realizzare che li rende forti e insieme fragili e si scontra con i sogni degli altri personaggi. Sogni d’amore, dove bisogno di sicurezza, passione e ideali umanitari s’intrecciano e reciprocamente si annullano. L’intraprendente Giulia ama il pavido Boris che però si è innamorato della bella Arifa, l’infermiera kosovara di Clizia. Ma anche Arifa e Clizia coltivano un sogno comune, il più nobile tra gli ideali, l’unico che alla fine si avvererà. Non ci sono vincitori in questa storia, ma soltanto sogni e ideali che nascono spontanei in mezzo alla violenza come i bambini in tempo di guerra, come fiori su un terreno minato. Finale a sorpresa in un romanzo ben costruito, a tensione crescente, coinvolgente e appassionante come un thriller ma scritto principalmente per esaltare il valore della speranza in una terra martoriata da rivalità, criminalità e odi etnici atavici.

Autore: Ausilio Bertoli
Collana: Comete 2
Categoria: letteratura italiana
Pagine: 104
ISBN 978-88-497-0604-8
€ 12,00

www.besaeditrice.it


martedì 8 settembre 2009

HONEYMOONS

"Sembra che gli artisti si capiscano meglio dei politici. Non esiste l'odio atavico tra i nostri paesi, l'hanno inventato gli ultra-nazionalisti di entrambe le parti, e questo ci ha impedito di frequentarci, di conoscerci e di scambiare esperienze." Goran Paskaljevic

Titolo dolce, Honeymoons, dedicato alla luna di miele, ma durissimo nel suo svolgimento: è l'ultimo film di Goran Paskaljevic, applaudito al Cinema di Venezia all'interno delle Giornate degli Autori. Paskaljevic grazie alla sua forza artistica, al rispetto che gode in tutta l'area balcanica oltre che internazionale, è riuscito a realizzare per la prima volta nella storia una coproduzione serbo albanese. Con la sceneggiatura scritta a quattro mani dallo stesso regista insieme con Genc Permeti, Honeymoons è la dimostrazione di come il cinema può raggiungere risultati impossibili alla politica, superare confini invalicabili. Il film non è altro che la storia sul paradosso di frontiere che sembrano spalancate e sono invece trappole micidiali, che siano quella ungherese o il porto di Bari. La vicenda si svolge ai giorni nostri tra Albania, Serbia, Italia e Ungheria e segue le storie di due giovani coppie che decidono di lasciare i loro rispettivi paesi per inseguire una vita migliore in Europa. La coppia albanese vuole lasciare il paese sui monti con il suo rigido codice che non è solo una tradizione, ma legge e riesce a imbarcarsi. Giunti in Italia, per dare forma ai loro rispettivi sogni, trovano tanti ostacoli. L'arrivo al porto di Bari è infatti di imprevista durezza. Lo stesso destino attende la coppia serba che entra nell’Unione Europea attraverso il confine ungherese. Per una serie di casi sfortunati, non riescono, almeno per il momento, a coronare i loro sogni. La parola pericolosa che compare sui passaporti è Kosovo. Le strade delle due coppie si intrecceranno, ma solo per un breve momento... In Kosovo sono stati uccisi due soldati italiani dell'ONU e chiunque provenga dall'area è considerato un sospetto anche se con i documenti in regola.





www.honeymoons-movie.com


giovedì 3 settembre 2009

I ROM: DAL KOSOVO AL CASILINO 900

Storia incredibile di alcune famiglie rom, imparentate tra loro, che dagli anni novanta in poi, quando il clima sociale e politico in Kosovo cominciava a farsi pesante, lasciarono le loro case per raggiungere l'Italia. Pensavano di essersi lasciati alle spalle l'inferno. Arrivarono, invece, al CASILINO 900.

Roma. Giornata calda e afosa di fine agosto. Il clima insopportabile si percepisce nei volti dei rom del Kosovo che vivono nel campo-ghetto più vecchio della capitale. Sanno di dover presto lasciare la miseria costruita in tanti anni per una nuova destinazione rimasta ancora oggi top secret, probabilmente per non creare allarmismi tra i residenti che dovranno accoglierli. Tredici villaggi autorizzati, a fronte degli oltre cento campi nomadi oggi esistenti, tra insediamenti abusivi e campi cosiddetti "tollerati". Non più di 6.000 nomadi sul territorio romano, invece dei quasi 7.200 attuali. Sono questi i principali obiettivi del piano "Nomadi" messo a punto dal prefetto Pecoraro e tanto voluto dal sindaco capitolino che ha impostato la sua campagna elettorale anche e soprattutto su queste tematiche. Grande senso di sollievo per i residenti del VII municipio di Roma che dopo decenni di "degrado e criminalità spicciola" si vedono finalmente riqualificare l'intera area. Grande senso di smarrimento per i circa 800 abitanti delle baraccopoli del Casilino 900 che non conoscono il loro futuro. Il Casilino 900 è infatti uno dei primi campi che si prevede sarà chiuso. Entrò metà ottobre, il 50% circa dei suoi abitanti dovrebbe essere spostato altrove. I lavori sono già in corso. Ieri, durante la mia visita al campo con il fine principale di parlare con i rom del Kosovo e conoscerli meglio, ho notato che la Croce Rossa Italiana era lì, intenta a consegnare le schede per un primo censimento. “Modulo ricognizione nuclei familiari”, era scritto su tali documenti. Accompagnato, in questa mia avventura, dai miei amici Santo e Ehsan, ci siamo dovuti improvvisare mediatori per rispondere alle domande che le varie mamme preoccupate e gli uomini del posto ci rivolgevano, ignari di cosa fossero quelle carte che tenevano tra le mani. Accolti nel "giardino" di casa del signor Resat, il neo avvocato Santo ha riempito i moduli della famiglia Prekuplja, mentre io ed Ehsan, incantati dallo scenario che avevamo davanti ai nostri occhi, abbiamo scattato qualche foto e chiacchierato con i parenti di Resat ed i suoi vicini. Questa era la mia prima volta nel Casilino 900. Ed anche per i miei accompagnatori. A differenza loro, però, avevo familiarità con i campi rom, avendoli visitati in Kosovo già svariate volte. Trovandomi di fronte al centro romano, sono però rimasto immobile per diversi secondi. Il degrado e la miseria del Casilino 900 non si differenziavano affatto da quelli del Plemetina Camp nelle vicinanze di Obliq o Cesim Lug e Osterode di Mitrovica. Comuni erano anche le agghiaccianti scene di vita quotidiana e le terribili azioni dei bambini dettate dal bisogno. Dovendole mettere sulla bilancia dell'indigno umano, credo, però, che il Casilino 900 supera, seppur di poco, i campi rom del Kosovo, per il semplice fatto che in una potenza mondiale, come si definisce l'Italia, culla della democrazia e dei diritti umani, cuore dell'Europa, è inaccettabile vedere, ancora oggi, luoghi mostruosi e inumani come quello che mi si è presentato davanti agli occhi sulla Palmiro Togliatti. All'interno del Casilino 900 sono alloggiate oggi circa 800 persone, la maggior parte di loro bambini. Qui, ognuno nella propria fetta di terra, in modo da aver costituito autentici ghetti nel ghetto, vivono i rom di 4 diverse nazionalità. Sono montenegrini, macedoni, bosniaci e kosovari. Per via delle diversità culturali e di problemi causati da motivi a noi sconosciuti, gli abitanti del campo ci hanno raccontato che le tensioni tra i vari gruppi non sono mai mancate, anzi, nei pochi momenti di aggregazione e di collaborazione, incentivati soprattutto dalle organizzazioni che di volta in volta hanno lavorato nel campo, si sono verificati scontri sfociati in vere e proprie risse. La chiusura e l'ermetismo che sembrano propri della cultura rom lasciano trapelare comunque ben poco all'esterno. Anche per questo Savorengo Ker (in lingua Romanés “La casa di tutti”), il nobile progetto realizzato da vari architetti italiani in collaborazione con alcune Università di Roma ed i rappresentanti delle 4 comunità rom del campo, è andato in fumo, bruciato in meno di due ore in una piovosa notte di inverno. Nessuno sa chi sia stato a distruggerlo. Comincio a pensare che le tensioni interne ai quattro gruppi siano alla base delle poche macerie rimaste. Comincio a sospettare questo, non per annacquare le grandi responsabilità delle amministrazioni locali che negli anni si sono succedute, o dell'Italia in generale, ma perché, di fronte all'inefficienza delle politiche sociali dell'Italia - per quel po' che vi rimane, alle maldestre politiche di immigrazione, e di fronte ai preoccupanti scenari populistici cavalcati in questi anni, le divisioni e le lotte intestine tra gli occupanti del campo hanno certo contribuito a rendere questo posto ancora più deplorevole. In poche parole, è evidente che nessuno dei suoi abitanti si preoccupa più di rendere il posto sicuro e pulito, spazzando via l'erbaccia e la spazzatura. Al contrario, nell'indifferenza e nel menefreghismo generale, usano i loro stessi spazi come mondezzai, terreno fertile per le malattie dei propri figli. Porto grande rispetto per chi versa in grandi difficoltà, e i rom del Casilino 900 senza dubbio si trovano in questa situazione, ma non credo che si possa restare indifferenti ed inattivi di fronte alla giungla che cresce vicino casa, quella dove provano a giocare e divertirsi i tuoi figli. Potrebbero provvedere a ripulire il campo per vivere un po' più decorosamente e mostrare all'esterno un'immagine meno grigia di quella che tanti esterni gli hanno facilmente affibbiato. Ad ogni modo, sono stato felice di essere ospite di alcuni generosi membri del campo. La famiglia Hamdi, ad esempio, mi ha fatto accomodare dentro casa sua. E, per quanto precaria questa potesse essere, la sua costruzione in legno mi è apparsa molto dignitosa, pulita e ordinata. Davvero! Una sorpresa, l'esatto opposto di quello che si vedeva fuori.
Quanto alle responsabilità Nostre potrei scrivere un libro. Mi limito a soffrire in silenzio.

continua..

articolo pubblicato su sito di Peacelink

guarda il reportage fotografico

leggi la seconda parte


KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO