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martedì 8 dicembre 2009

"ONE WORD" HUMAN RIGHTS INTERNATIONAL FILM FESTIVAL


Il Festival Internazionale dei Diritti Umani è giunto alla sua 10° edizione. "ONE WORLD" è il titolo della rassegna realizzata dal Consiglio per la Difesa dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà (CDHRF) che si svolgerà dal 15 al 20 dicembre a Pristina. Sei giorni fitti di cortometraggi di giovani registi e dibattitti. "Ognuna delle sei giornate sarà dedicata ad un unico soggetto (minori, violenza sulle donne, diritti umani, minoranze etniche) e dopo ogni proiezione seguirà un dibattito sull'argomento" è quanto ha riferito il responsabile dell'associazione CDHRF, Shkelzen Gashi. Il Consiglio per la difesa dei diritti dell'uomo e delle libertà è la prima O.N.G. no-profit e non-politica in Kosovo, creata il 14 dicembre 1989 con l'obiettivo di difendere e promuovere i diritti umani e le libertà, in linea con standard internazionali. Durante il 1990 il CDHRF ha raccolto informazioni, richieste, foto e altre prove sulla violazione dei diritti umani e delle libertà in Kosovo. Dopo la fine della guerra in Kosovo, il CDHRF è diventato partner operativo dell'UNHCR, ha inoltre cooperato con il Tribunale dell'Aja testimoniando sui crimini di guerra in Kosovo sporgendo diverse denunce.
Il Festival nel corso degli anni è andato sempre più ingrandendosi in quantità e qualità dei registi e dei film prodotti.
Era il lontano 2005 quando, da poco arrivato in Kosovo, ho seguito l'edizione del festival e rimasi colpito dalla profondità di molti cortometraggi di giovani registi provenienti dai Balcani, come "Pretty Diana" del serbo Boris Mitic.


[Nel bel mezzo di un quartiere di Belgrado c'è un enorme e dimenticata chiesa ortodossa, ancora in costruzione. La chiesa si affaccia, su di un campo di persone rom fuggite dalla guerra del Kosovo. Degli strani veicoli entrano ed escono dall'accampamento. Niente a che vedere con la mano di Dio, si tratta di pura magia gitana che mostra un eclatante esempio di attivismo sostenibile. Considerate solitamente come un prestigioso oggetto da collezionisti, le classiche automobili Citroën Diana vengono qui trasformate in futuristiche macchine ecologiche alla Mad Max. Tutto tranne il motore viene rimosso dallo chassis, un improvvisato cassone sul retro, e il resto dipinto con colori splendenti e decorato con buffi gadgets. Così bello che anche i bambini piccoli vogliono guidare.
Uno sguardo intimo osserva quattro famiglie rom da una favela di Belgrado che si guadagnano da vivere vendendo cartoni e bottiglie che raccolgono con le loro risorte Diana. Questi moderni cavalli sono più efficaci dei carrelli, ma cosa più importante sono sinonimo di libertà, speranza e stile per i loro proprietari artigiani. Perfino le batterie della macchina sono usate come generatori di energia per avere luce, guardare la TV e ricaricare i cellulari! Praticamente il sogno di un alchimista Ma la polizia non sempre trova divertenti questi strani veicoli]

Per maggiori informazioni visita il sito www.dribblingpictures.com

lunedì 16 novembre 2009

DIARIO DI VIAGGIO: LA MAGIA DI PRIZREN


All'inizio da un posto lontano, poi da un altro un po' più vicino -o per lo meno così ho pensato mentre emergevo dal sonno più profondo delle cinque del mattino- la voce intonata ed armoniosa del Muezzin mi sveglia. Il silenzio della notte viene interrotto, insieme al mio sonno, dalla voce che esce dagli altoparlanti posizionati in cima ai minareti delle moschee, voce che invita i fedeli alla prima delle cinque preghiere che segnano la giornata del buon musulmano. Non mi risulta che le moschee in Kosovo a quell'ora del mattino siano piene di persone. Ma come consuetudine millenaria, dagli alti minareti delle moschee della vecchia Costantinopoli o da quelle nuove e di piccola dimensione che si possono trovare in un classico villaggio rurale del Kosovo, alle cinque in punto il canto richiama i fedeli e non solo. Tutto ciò è quello che mi è capitato la prima notte che sono arrivato nella magica Prizren, città del Kosovo, crogiolo di culture e tradizioni assai differenti, luogo che fino allo scoppio dei tragici eventi del 2004 ospitava anche una significativa presenza di cittadini serbi, per lo più arroccati nella parte alta della città. Bisogna costatare che da allora il quartiere serbo è stato distrutto, i suoi abitanti costretti a riparare altrove e una Chiesa ortodossa fortemente danneggiata. Oggi, sono veramente pochi i serbi che vivono a Prizren; otto di loro sono monaci che come Stanko vivono all'interno del Monastero degli Arcangeli situato alle porte della città. Come per l'odierna Sarajevo anche a Prizren la convivenza delle principali religioni monoteiste è un ricordo del passato anche se sopravvivono a poca distanza l'una dall'altra una moschea, una chiesa cattolica e una ortodossa. Tuttavia, Prizren, vicina all'Albania solo geograficamente e con una significativa minoranza turca, rimane dal punto di vista culturale, religioso, paesagistico e gastronomico una città davvero interessante. Il suo centro storico, l'unico in tutto il Kosovo che ha legami con il passato, è bel ordinato, pieno di caffetterie che si affacciano sulla piazzetta e costruzioni di inzio '900.



Nei vicoletti laterali si possono vedere ancora piccole botteghe di artigiani che lavorano pellame e ferro. Numerosi sono anche i sarti che dietro le loro macchine da cucire sorseggiano tazze di caffè turco o del tè. Le belle giornate di fine ottobre hanno spinto i suoi abitanti a riversarsi in piazza. Ovunque giovani e famiglie, uomini di mezza età che affollano i cafè all'aperto. Più riparati dallo sguardo dei passanti, in quartieri semi centrali, vivono i carismatici dervish, anziani dallo sguardo profondo e penetrante, gentili e riservati allo stesso tempo

Già i Dervish!! ordini religiosi islamici, differenti tra loro, originari dalla lontana Persia, diventati sempre più influenti durante l'Impero Ottomano, come l'ordine dei Bektashi che dopo il 1826 per sfuggire alla ferocia del sultano turco si spostò nei territori dell'Albania. Presenti anche in Kosovo (Prizren, Gjakova, Rahovec) all'interno dei loro centri di culto (teqe) svolgono rituali molto suggestivi.

terza fermata: nella teqe con i dervish

P.S. un ringraziamento speciale a Cristina e Daniele di IPSIA che hanno reso i miei "7 days" ancora più interessanti..

martedì 8 settembre 2009

HONEYMOONS

"Sembra che gli artisti si capiscano meglio dei politici. Non esiste l'odio atavico tra i nostri paesi, l'hanno inventato gli ultra-nazionalisti di entrambe le parti, e questo ci ha impedito di frequentarci, di conoscerci e di scambiare esperienze." Goran Paskaljevic

Titolo dolce, Honeymoons, dedicato alla luna di miele, ma durissimo nel suo svolgimento: è l'ultimo film di Goran Paskaljevic, applaudito al Cinema di Venezia all'interno delle Giornate degli Autori. Paskaljevic grazie alla sua forza artistica, al rispetto che gode in tutta l'area balcanica oltre che internazionale, è riuscito a realizzare per la prima volta nella storia una coproduzione serbo albanese. Con la sceneggiatura scritta a quattro mani dallo stesso regista insieme con Genc Permeti, Honeymoons è la dimostrazione di come il cinema può raggiungere risultati impossibili alla politica, superare confini invalicabili. Il film non è altro che la storia sul paradosso di frontiere che sembrano spalancate e sono invece trappole micidiali, che siano quella ungherese o il porto di Bari. La vicenda si svolge ai giorni nostri tra Albania, Serbia, Italia e Ungheria e segue le storie di due giovani coppie che decidono di lasciare i loro rispettivi paesi per inseguire una vita migliore in Europa. La coppia albanese vuole lasciare il paese sui monti con il suo rigido codice che non è solo una tradizione, ma legge e riesce a imbarcarsi. Giunti in Italia, per dare forma ai loro rispettivi sogni, trovano tanti ostacoli. L'arrivo al porto di Bari è infatti di imprevista durezza. Lo stesso destino attende la coppia serba che entra nell’Unione Europea attraverso il confine ungherese. Per una serie di casi sfortunati, non riescono, almeno per il momento, a coronare i loro sogni. La parola pericolosa che compare sui passaporti è Kosovo. Le strade delle due coppie si intrecceranno, ma solo per un breve momento... In Kosovo sono stati uccisi due soldati italiani dell'ONU e chiunque provenga dall'area è considerato un sospetto anche se con i documenti in regola.





www.honeymoons-movie.com


lunedì 31 agosto 2009

KOSOVO, INCERTEZZE E SOGNI: IL VIDEO

Anche se con ritardo, sono riuscito a caricare il video realizzato in occasione della mostra itinerante sul Kosovo, realizzato insieme al fotografo Ignacio Coccia, con il contributo di Stefano Artisunch che ha prestato la sua voce e il supporto della casa editrice Paoletti D'Isidori Capponi di Ascoli Piceno.

Incertezze e sogni, paiono essere agli autori due sostantivi che maggiormente racchiudono il sentire comune delle due principali etnie che compongono il Kosovo, da decenni in conflitto tra loro. Tra il bianco della neve e il nero delle ombre viene colta e quindi proposta al pubblico la luce dei volti e dei paesaggi desolati tra Pec e Pristina, Mitrovica e Gorazdevac. Viene messa a fuoco una quotidianità fatta di lavoro, casa, spiritualità, rispetto e culto delle tradizioni ancora sentite. E’ forse la quotidianità vissuta fino in fondo a fare da antidoto, pur se fugacemente, alle malinconie, alle paure e ai sogni che scaturiscono dall’incertezza per il futuro di questo nuovo stato. Ma potrebbe essere invece proprio la speranza l'antidoto più efficace. La luce della speranza e della rinascita proprio come quella che si percepisce nell'aria ogni volta che un inverno finisce.







martedì 28 luglio 2009

OTTOBRE 1912. NOI E GLI ALTRI, OVVERO GLI ALTRI E NOI


A proposito della recensione di ieri del libro L'ALTRO ACCANTO A NOI, ho riflettuto sui concetti di identità e di diversità, sul chi sono io e chi sei tu. Mentre pensavo e mi analizzavo mi sono ricordato di un testo inerente a queste tematiche che ho letto mesi prima. Spulciando tra i vecchi files ho così ritrovato il rapporto che mi lasciò letteralmente impietrito per i contenuti vecchi di quasi 100 anni, ma mai come oggi attuali.

"Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedientio, addirittura, attività criminali". La relazione così prosegue: "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purchè le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

Il testo è tratto da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti,

Ottobre 1912

mercoledì 1 ottobre 2008

SONO ROSE E FIORIRANNO (terza ed ultima parte)

CBM quanto a personale, organizzazione e progetti sembra essere l'associazione locale meglio strutturata di Mitrovica.

A concludere questa giornata tutta al femminile incontro lo staff di CBM (Community Building Mitrovica). Ad accogliermi nel loro ufficio, prima dell’arrivo di uno dei managers, Flora (Florije) Sylaj, trovo Lindsay, una stagista venuta dall’Olanda, quasi a marcare l’aspetto internazionale di questa Ong locale radicata evidentemente non soltanto su tutto il territorio kosovaro. CBM è stata fondata nel 2001 e come allora anche oggi conta personale multietnico del nord e sud di Mitrovica e collabora con numerosi attori nei Balcani, tanto che la sua direttrice gestisce anche un network di 30 Ong balcaniche che ha sede in Macedonia. Quanto a personale, organizzazione e progetti sembra essere l’associazione meglio strutturata di Mitrovica. Ha tanti punti di forza CBM,evidenti non soltanto per le sue iniziative che si concentrano nella promozione del dialogo tra serbi e albanesi, la tutela delle monoranze e la protezione e il rafforzamento delle donne, ma anche nella motivazione dei suoi membri che considerano CBM forte e unica nel suo genere e si dichiarano fermamente convinti dell'importanza del lavoro che svolgono. "Gestiamo il Centro Multietnico di Donne nella parte nord di Mitrovica, a Kodra Minatore/mikronaselje, monitorato da una volontaria di CBM", spiega Flora, "Lì si organizzano incontri, viaggi, corsi di formazione su vari temi come la violenza domestica o la tessitura di tappeti (8per le ragazze rom), scambi con organizzazioni simili nei Balcani". "Proprio qui, in un'area nevralgica nella contrapposizione tra serbi ed albanesi, grazie a questo centro multietnico di donne, la situazione è nettamente migliorata", commenta. Si occupano poi di advocacy e di diritti delle donne e di progetti generatori di reddito. Cercano in particolare di aiutare donne, ma in molti casi anche uomini, a sviluppare abilità che possono essere vendute sul mercato, con corsi, ad esempio, per chi lavora nelle costruzioni, corsi tecnici rivolti ai più poveri e di cucito per le donne rom. “La lista delle nostre attività è molto lunga”, precisa sorridendo la collaboratrice di CBM, “ci sono anche diverse attività che riguardano i giovani, in particolare per la promozione del dialogo interetnico, come l’organizzazione di visite in Olanda e Macedonia, l’ultimo un summer camp di una settimana a Ohrid (Macedonia) a cui hanno partecipato studenti di musica di tutto il Kosovo, serbi e kosovari”. A questo progetto che si è svolto appunto nell’agosto 2008, CBM ha lavorato con l’organizzazione Musicisti senza frontiere (Musicians without borders) che ha offerto loro l’assistenza tecnica necessaria. Inoltre gli istruttori del corso, albanesi e serbi, sono stati formati insieme in Olanda. “Adesso vogliamo costruire una pop-rock school a Mitrovica”, afferma Flora. “Nonostante la nostra dimensione non tanto grande, cerchiamo comunque di mettere da parte delle risorse da investire nel fundraising e nei media, e nella pubblicazione mensile del nostro M-magazine, quando riusciamo anche nella versione in inglese” conclude la manager. Community Building Mitrovica, insieme a Mundesia e la Women Business Association, sono tre realtà vive di Mitrovica, soggetti con i quali, nel bene e nel male, le faziose istituzioni locali e la classe politica di Pristina e di Belgrado dovranno sempre più misurarsi per uscire dal pantano Kosovo e ritornare così a vedere e rappresentare la colorita composizione etnica di sempre.

leggi la prima e la seconda parte

links: Mundesia, CBM

lunedì 22 settembre 2008

SONO ROSE E FIORIRANNO (seconda parte)


Raggiungendo il quartiere Bosnian Mahalla dove ha sede il Community Business Youth Centre

La signora Hasime, albanese kosovara, ha molta dimestichezza con il Pajero che guida, donato anch’esso dai finlandesi. Ricorda affettuosamente il giorno in cui le è stata consegnata, “So bene che potrei, a questo punto, dopo l’usura degli adesivi attaccati sulle due portiere della macchina, toglierli” ammette, “Di per sé non è un gesto scorretto, certo, ma come si fa?” “Voglio esserli riconoscente”, aggiunge riferendosi ai finlandesi, “Anche con questo piccolo gesto”. L’inglese continua ad essere la principale lingua di comunicazione anche quando mi accompagna con la sua macchina, il Pajero appunto, al Bosnian Mahalla, un quartiere cuscinetto sito proprio tra la parte sud e quella nord di Mitrovica, dove incontriamo la sua collega e amica Olivera, direttrice della Women Business Association. Ci vivono tutte le etnie del Kosovo in questo solo quartiere, che anche per questo è piuttosto militarizzato. I soldati della Kfor continuano a svolgervi attività di controllo e peacekeeping. Noi parcheggiamo e in maniera del tutto naturale vedo Hasime attraversare la strada di questo posto di confine, (a pochi metri dalla zona serba), e salutare con affetto Olivera Milosevic nel Community Business Youth Centre che gestiscono insieme. Può sembrare un gesto di assoluta normalità quello del bacio tra due persone che si conoscono da tempo. Ma non lo è certo per chi vive da queste parti ed appartiene a due etnie“contrapposte” da decenni di tensioni e conflitti. Una volta terminate le presentazioni iniziali, con Hasime e Olivera parliamo in tutta tranquillità di politica e integrazione. Olivera espone chiaramente le sue idee, dimostrando subito di essere anche lei energica e determinata, mi spiega come mai lei sia così conosciuta e ben inserita nella città nonché alla guida di quest’attiva associazione creata nel 2004. “Sin da allora”, spiega la direttrice della WBA, “ci siamo occupate di lotta contro la violenza domestica sulle donne, campagne per il rispetto ambientale, organizzare incontri tra micro imprese di Mitrovica -sia Nord che Sud- che operano nello stesso ambito, supportare piccoli agricoltori, albanesi, serbi o di altre etnie, nelle loro attività, organizzare tornei di calcetto multietnici tra i più giovani”. Apprendo poi che la WBA organizza anche corsi di cucina (dolci), a cui partecipano soprattutto donne rom, poi ci sono anche corsi di informatica, inglese, artigianato, corsi sull’analisi del sangue, la misurazione del colesterolo. Nella lunga lista di attività, prosegue Olivera evidentemente orgogliosa, si sono occupate anche di una campagna contro il traffico di esseri umani. “Oggi con il WBA, che partecipa ad un progetto di sviluppo locale di UNDP siamo qui”, ci dice muovendo gli occhi ad indicare la bella ancorché semplice struttura del centro giovanile.
“Da un anno e mezzo gestiamo il Community Business Youth Centre nel Bosnian Mahalla”, ripete Hasime che traduce il discorso di Olivera dal serbo all’inglese, un centro voluto da ciascun leader di ogni gruppo etnico di Mitrovica e “fortemente desiderato da Unmik che ha chiesto proprio a noi di gestirlo” conclude. Nel centro c’è internet, 15 persone impiegate, tra cui albanesi, serbi, turchi e bosniaci. Il CBYC è un luogo di incontro e aggregazione per donne e uomini, soprattutto giovani. Soddisfatte Hasime e Olivera elencano le tante sfide vinte contro il muro di gomma che è Mitrovica ed, in particolare, alcune sue istituzioni locali, rivivendo le avventure e paure dei giorni della pulizia del fiume Ibar, confine improvvisato tra il nord e il sud della città e due mondi divisi. Anche Olivera descrive con fierezza quella fase come un momento di rottura di un muro di pregiudizi, ricordando che in quel progetto del 2006 lei ed Hasime erano riuscite ad impiegare quasi 200 persone di diverse etnie che guadagnavano grazie a loro 120 euro al mese (un salario medio mensile in Kosovo va dai 150 ai 180 euro al mese). Quest’ultimo aspetto viene ulteriormente sviluppato in un dialogo tra le due donne ed Olivera, in maniera diretta, afferma come quello economico sia un aspetto non trascurabile nel processo di pacificazione del Kosovo. “La gente più che sedersi intorno ad un tavolo tecnico appositamente convocato per parlare di pace o di analisi pacifica del conflitto, o di multiculturalismo, ha bisogno di mangiare e di mandare a scuola i propri figli”, sentenzia gelida. Hasime muove energicamente la testa mostrando la sua piena condivisione di tale analisi.

leggi la prima parte

seguirà terza ed ultima parte con CBM (Community Building Mitrovica)

lunedì 15 settembre 2008

SONO ROSE E FIORIRANNO


Nella variegata città divisa di Mitrovica vivono serbi, albanesi, gorani, bosniaci e rom. Fattore critico di questo colorato aspetto sono però fratture e divisioni interetniche che rimangono molto pronunciate a tal punto che, come spesso avviene, proprio nella città dove la presenza di diverse comunità è più forte e visibile, più marcati sono i contrasti. È risaputo infatti che la città, non soltanto per la netta divisione tra serbi e albanesi, è la più problematica del Kosovo. Attore determinante nella ricomposizione del complesso puzzle dovrebbe essere la società civile della città sul fiume Ibar, i più giovani in primis, con l’essenziale supporto di donne talentuose e determinate,con l’accondiscendenza tacita della politica tout court. Il ruolo delle donne, qui come in numerosi altri contesti simili, è sempre stato di vitale importanza per la ricomposizione sociale. Sono in tanti ad aver da tempo capito questa forza, Unmik e molte altre organizzazioni internazionali, agenzie governative e Ong, ed ora anche la maggioranza dei suoi cittadini. Mitrovica, così come tutto il Kosovo, pullula ancora oggi di associazioni no profit e non, nate nella maggior parte dei casi subito dopo la guerra, alcune con un buon intento, altre più semplicemente per intercettare l’importante flusso di denaro del periodo post bellico. Nella città divisa proprio per la delicatezza del contesto sono attive, e in molti casi ben strutturate, varie organizzazioni multietniche, alcune nate per la sola iniziativa di donne.
Durante la calda estate kosovara ho incontrato e dialogato con le responsabili di alcune delle più significative realtà associative di Mitrovica, Mundesia, Women Business Association e Community Building Mitrovica.

Da Mundesia
La giovane ed energica Hasime Tahiri è la direttrice di Mundesia, che in albanese vuol dire “Possibilità”. “L’Ong è nata più di sei anni fa”, mi dice con il suo fluente inglese, “per iniziativa del governo finlandese”. L’idea iniziale che ha portato alla nascita dell’associazione è stata data da una risoluta donna finlandese, Kaisa Penttinen, del Finnish Refugee Council. Hasime era inizialmente il Local Coordinator di questa creatura appena nata, ed a lavorato tanto prima di diventarne la diretta responsabile, seguendo insieme alle sue colleghe numerosissimi trainings e tanta formazione mirata, in Kosovo come in Finlandia. Attualmente intorno a Mundesia ruotano 140 membri – tutte donne dai 17 ai quasi 80 anni– che pagano una piccola quota associativa di 2,50 euro l’anno. “È una cifra simbolica”, tiene a precisare la signora Hasime, spiegando anche come sia impossibile agire diversamente, “Quello che le donne pagano è logicamente una cifra inconsistente per il nostro budget, ma ci teniamo a che paghino tale quota per responsabilizzarle sempre di più”. “Noi viviamo del prodotto che realizziamo, e non certo per via di questa quota” sottolinea. Mundesia inizialmente si proponeva soprattutto di promuovere e rafforzare le opere artigianali delle donne di Mitrovica, come vestiti e tappeti, ed oggi con le sue attività sostiene campagne volte a sensibilizzare e istruire le donne, si impegna nella raccolta fondi per i suoi diversi progetti, senza dimenticare la vendita di manufatti la cui qualità è migliorata negli anni grazie a numerosi corsi. Nella loro struttura, un palazzo di 3 piani ben tenuto che il governo finlandese ha donato loro nei primi anni, le operatrici organizzano inoltre momenti di lettura, escursioni, fiere a Pristina, Peja e nei paesi confinanti. Insieme queste donne sempre indaffarate lavorano, parlano, discutono di tutto, macinano progetti e inseguono sogni. Molti di questi sono così andati in porto:
- nel 2005 hanno portato avanti un progetto in collaborazione con una organizzazione serba di Novi Sad. Il progetto aveva il fine di analizzare come fossero rappresentate e presentate le donne in politica sui quotidiani nazionali.
- hanno implementato un progetto con la Swiss Development Cooperation il cui fine era quello di supportare a livello educativo e formativo le donne rom del quartiere Roma Mahalla di Mitrovica
- hanno organizzato una fiera espositiva al Bosnian Mahalla, un quartiere multietnico della città
- da due anni lavorano con la Women Business Association, un’associazione serba di Mitrovica Nord, insieme alla quale, con il supporto di Unmik gestiscono il Community Business Youth Centre nel Bosnian Mahalla.
Nel 2006 Mundesia ha inoltre lavorato ad un importante progetto volto a ripulire ambe le sponde del fiume Ibar. Era il luglio del 2006, e quello è stato il loro primo progetto in collaborazione con la Women Business Association della signora Olivera, mi spiega Hasime. 170 persone, membri di tutte le comunità etniche di Mitrovica, vi hanno lavorato per più di 5 mesi. “Le minacce e i rischi erano altissimi nella fase iniziale e per tutta la durata del progetto, anche per questo eravamo molto attente a scegliere le persone che dovevano lavorarci, cercando di scartare a priori quelle che potevano creare dei problemi” sottolinea la direttrice di Mundesia. Non sono mancati i batticuori, ricorda ancora, ripercorrendo col sorriso la fase finale in cui il successo del progetto era ormai evidente, tanto che sono riuscite a portare a casa il secondo premio di UNDP Global.

leggi la seconda parte

martedì 10 giugno 2008

INDIAN FOOD & COMPANY

Questa proprio non ci voleva. Il mio ristorante preferito “Indian Food” è stato improvvisamente chiuso. Proprio questa mattina mentre passavo da lì, incuriosito per i lavori che stavano facendo, ho pensato di chiedere se i cingalesi stessero ristrutturando. Pronta è stata la risposta negativa del muratore che ci lavorava che mi ha informato del nuovo caffè – tipicamente kosovaro- che prenderà il posto del vecchio ristorante.“L’Indiano” così lo etichettavo, era un piccolo ristorante di proprietà di cingalesi, persone semplici, apparentemente timide e riservate, giunte in Kosovo da anni, venuti da così lontano e spinti, non so bene da che cosa, ad aprire un ristorante etnico qui a Pristina. Certo quella della ristorazione è un’attività tra le più proficue in Kosovo dove si possono trovare ristoranti tipici albanesi, serbi, ristoranti italiani, cinesi, c’è anche il messicano, il giapponese e persino un nepalese. Sicuramente è anche per questo che a Pristina si mangia molto bene. Io però ero molto affezionato a questo posto piccolo dalla cucina buona e speziata, economico e silenzioso, in pieno centro. In effetti da quando sono stati ultimati i lavori di riqualificazione dell’area pedonale nel cuore di Pristina, tra il Grand Hotel e il Palazzo di Governo, inaspettatamente gli amici cingalesi con il loro ristorantino si sono ritrovati di colpo nel posto più interessante che potessero mai trovare. Appunto per questo, da diversi mesi notavo la presenza di personale kosovaro dietro la cucina. Questo è molto insolito. Si possono trovare cuochi kosovari in ristoranti italiani e internazionali in genere, ma la presenza degli stessi in quelli indiani o cinesi è veramente rarissima se non inesistente. Fatto sta che da quella volta ho prestato attenzione a queste presenze. L’ultima volta, appena un mese fa, seduto ad un tavolo ho visto il simpatico proprietario del locale discutere sottovoce con una persona di orgine albanese kosovara. Intuivo dove sarebbero arrivati. La longa manus albanese si sarebbe presto addentrata fin dentro gli affari del ristorante. Così è stato. L’ultima volta che goloso di assaggiare il loro piatto forte,chicken kuruma, con tutte le salsine piccanti e speziate, ho notato le insegne staccate e la porta chiusa, mi è caduto il mondo addosso. L’Indian Food era stato chiuso. In un primo momento speravo in una ristrutturazione o ingrandimento del locale, ma quando ho saputo quanto stava accadendo non ho potuto far altro che pensarci sopra e ho tratto la conclusione che qui in Kosovo, e maggiormente nella sua commerciale capitale, tutto, ma proprio tutto, è soggetto a continuo cambiamento. Seduto davanti a un caffè cercavo di riflettere su questo. Di colpo, quasi istintivamente ho alzato la testa e preso visione del posto in cui mi trovavo. I locali del pub-ristorante "92", di fronte al quartier generale di Unmik, pochi mesi prima di quest’ultima apparizione ospitavano un’attrezzata e rifinita caffetteria e prima ancora una struttura credo di Unmik o forse privata, non saprei, che vendeva cartine e mappe geografiche del Kosovo, in tutte le forme e dimensioni. La stessa distrubuiva anche i mensili informativi di Unmik e Osce. Tutti questi cambiamenti sono avvenuti in meno di due anni. Da oggi farò a meno del ristorante indiano. Mi sono già rassegnato, ma faccio veramente fatica a capire cosa c’è dietro questa maledetta voglia di cambiamento, a maggior ragione quando gli affari delle attività commerciali vanno –o sembrano andare?- a gonfie vele.
P.S. nulla di personale per carità, ma il nome che hanno dato alla caffetteria, "New Born" (oggi 11 giugno, passando da lì ho visto la nuova insegna) mi ha irritato e non poco.

venerdì 6 giugno 2008

UNA STRANA CITTA' NORMALE

Kamenica in serbo, Dardane in albanese due nomi nettamente distinti, ma una casa comune per le due principali etnie che compongono il Kosovo.



La gente di Kamenica, sotto una calda e soleggiata mattina di giugno, passeggia lungo il piccolo corso che l'attraversa. Questa piccola cittadina, situata nella parte ovest del Kosovo, confinante con la Serbia (la prima citta' serba di Serbia, Bujanovac, dista in linea d'aria poche decine di chilometri) è l'espressione più compiuta di quell'integrazione multietnica che sino ad ora e per tantissime ragioni è rimasta sulla carta e su quei documenti (raggiungimento degli standards) che i vertici di Unmik e del Gruppo di Contatto hanno poi inoltrato via New York a tutte le cancellerie europee.
Kamenica oggi come ieri gode di un clima sereno e rilassato, probabile risultato dell'animo pacato della sua gente. Mi ritorna in mente, proprio ora che sto per battere la lettera b (di battere) il lucido testo di Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi (L'Esprit des Lois), dove si afferma che fattori come il clima, l'animo delle persone e la posizione geografica possono avere delle influenze sui vari ordinamenti politici, condizionandoli. Kamenica si trova in quella zona del Kosovo definita "a macchia di leopardo", composta cioè da villaggi misti di serbi e albanesi (incluse le zone di Gnjilane/Gjilane e Viti/Vitina) che durante la guerra e forse per via di quell'inclinazione pacifica che caratterizza la sua gente non è stata teatro di scontri e uccisioni, sebbene potesse essere, per via di questa sua stessa conformazione geografica, altamente sensibile e quindi pericolosa.
Per nostra fortuna l'area non presenta questi tratti violenti, anzi, in questo incerto inizio di giugno si gode il suo clima disteso. Le poche notizie che sino ad ora avevo di Kamenica non solo trovano rispondenza in situazioni che ho da poco vissuto, ma escono rafforzate per via delle colorate scene giovanili che mi si presentano davanti. Al Kosovo che ho visto fino a ieri devo aggiungere quest'altra sua particolare componente: l'aspetto giovanile di Kamenica. Giovani abbastanza socievoli, con un abbigliamento alla moda e luccicanti orecchini ai lobi, ragazze dall'aspetto vistoso intente a chiacchierare con i loro coetanei in atteggiamenti a noi normali e comuni, ma piuttosto insoliti in buona parte del Kosovo. Credo che tutto ciò sia il risultato dell'aria di vicinanza con la dinamica Serbia. Queste mie supposizioni trovano subito conferma nelle parole di Fatos, 22 anni studente di Economia all'Università di Pristina, che, diretto, aperto e disponibile al dialogo con il sottoscritto, appare in sintonia con il classico stereotipo delle persone che vivono da queste parti. Alla cassa di un grande supermercato in pieno centro, ci ritroviamo immersi in una piacevole conversazione il cui nucleo centrale verte sulla convivenza e l'interazione tra serbi e albanesi di Kamenica. Col senno di poi, ammetto che l'ho bombardato di domande, perplesso e esterrefatto com'ero per via delle sue parole. "si, loro sono serbi" affermava indisturbato guardando un gruppo di giovani poco distante, "sono in tanti che vivono qui con noi a Kamenica", continuava. Nella lunga conversazione il longilineo Fatos mi ha presentato con le sue dichiarazioni quello che ho sempre cercato in lungo e largo per il Kosovo, ovvero il saluto e l'interazione positiva tra le due etnie. "Qui a Kamenica, ci si saluta", mi fa presente Fatos "ogni tanto con il dobre dan, altre con il miredita". "Certo, anche loro hanno attività commerciali in città" dice rispondendo alla mia domanda. Fatos racconta anche del suo amico, "l'Iracheno" come lo chiama lui (per via del fratello che lavora da nove anni con gli americani ed è da qualche anno in Iraq negli uffici dell'esercito Usa), che ha come vicini dei serbi con i quali si ritrova ogni tanto a casa loro per riparare piccole attrezzature informatiche. "Saltuariamente si va anche in Serbia, in posti dove vivono gli albanesi, e non abbiamo mai avuto problemi lì" sentenzia. Quasi faccio fatica a credere alle parole di Fatos, ma presto devo convincermi del contrario per me abituato invece al clima gelido di Mitrovica. Vedo macchine serbe con tanto di targa serba circolare liberamente e persone serbe fare le cose più banali, come benzina in un rifornimento di proprietà albanese o passeggiare indisturbati in città. Per una volta sono stato io a sentirmi anormale in una citta che ha tutte le sembianze della normalità.


articolo pubblicato sul sito di peacereporter.net , peacelink.it e viaggiareibalcani.net

KOSOVO: LA VOCE DEL CONIGLIO