domenica 7 ottobre 2007

LA CAMPAGNA D'AUTUNNO

In Kosovo l'attesa per elezioni tradisce l'ansia


MITROVICA. L’autunno kosovaro è iniziato cadenzato da una serie di appuntamenti importanti. Il mese del Ramadan (o “Ramazan”), festa cara ai musulmani, sta volgendo al termine. Siamo entrati nell’ultima settimana, venerdì 12, infatti, il mese di digiuno si concluderà con la grande festa finale. Mitrovica, la parte Sud, si è presentata da subito molto suggestiva e sotto una veste a me nuova: molta gente per le strade, tutti intenti alle compere per il pasto serale, caffe rumorosi affollati di uomini che non consumano nulla per via del digiuno. Una Mitrovica surreale poi quella delle 18.20. Puntalmente ogni sera a quell’ora, come d’incanto, la città si svuota. Nessuno per le strade, solo poche anime, anche le attività chiudono tutte: gli abitanti di Mitrovica si apprestano a terminare il digiuno con un lauto pasto. Subito dopo, quasi di getto, tutti si riversano nuovamente a popolare le strade cittadine.
Il tempo necessario per uscire rinvigoriti da questo mese di purezza e rigore spirituale e la città più controversa del Kosovo, così come tutta questa regione della Serbia, entrerà nel vivo della campagna elettorale. Le elezioni previste il 17 novembre rinnoveranno sia l’assemblea parlamentare del Kosovo che i comuni. La campagna elettorale nonostante verrà aperta ufficialmente soltanto nella seconda metà di ottobre, è già nel vivo. Tante le novità. Innanzitutto, la possibilità da parte degli elettori, di scegliere i propri candidati. In secondo luogo, nuovi candidati insieme a vecchie conoscenze. Pacolli, che appena pochi mesi fa ha trasformato la sua lobby in difesa della causa kosovara -molto influente all’estero- in un partito politico, ha riempito il Kosovo con cartelloni, a noi piuttosto familiari, in cui questo grande imprenditore mette in mostra sia le faraoiche opere architettoniche realizzate all’estero che l’elevato numero di kosovari impiegati. Piene sono anche le strade di posters con il volto energico di Haradinaj, potente veterano di guerra che dalle file dell’UCK gestiva la zona di Dukagjini. Anche oggi lo fa, seppure da una posizione differente, apparendo, tuttavia, altrettanto forte e potente come in passato. Infatti, nonostante la sua assenza fisica dal Kosovo in quanto sotto processo all’Aja per crimini di guerra, è riuscito con il consenso di UNMIK ad essere inserito nella lista dei candidati. L’unica cosa che il suo partito, l’ AAK, non è riuscito ad ottenere, è stato lo slittamento delle elezioni a data futura, in modo tale da poter garantire (forse) anche la presenza fisica dell’ex Primo Ministro kosovaro.
Dalla parte serba, invece, il problema non si pone: le elezioni sono boicottate. Il “Niet” giunto da Belgrado è chiaro. Eppure anche qui qualche opportunista politico ha pensato bene di scendere in campo per la carica di sindaco di municipalità serbe, forte della mancanza di avversari.
Si tratta di elezioni molto imporanti, che cadono in un periodo molto delicato. Sono elezioni che dovevano tenersi l’anno precedente ma che, per via della discussione sullo status presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la diplomazia UNMIK è riucita a posticipare, pensando di risolvere la spinosa questione dello status di lì a poco. A distanza di un anno, il macigno dello status incombe ancora nell’agenda politica delle diplomazie occidentali, e non solo. Ma, la democrazia deve pur avere il suo corso e le elezioni non possono più essere posticipate. Con che contenuti i candidati pensano di riempire i loro programmi elettorali è veramente difficile saperlo. La classe politica locale ha speso ormai tanto e tutto per l’indipendenza: “Abbiate pazienza, presto saremo uno stato”, tutti dicevano.
Per il momento vecchie logiche e spesso pessime abitudini pre-elettorali, anche queste a noi certo familiari, hanno spinto l’attuale classe politica ad accantonare –ancora una volta- i molteplici problemi, come l’elettricità (che manca fino a 5-6 volte al giorno per almeno un’ora) per dedicarsi a quello che, visibilmente parlando, ha un impatto immediato tra l’elettorato: il rifacimento delle principali arterie cittadine e la costruzione di opere d’arte dal gusto dubbio ma etnicamente definite. Il tutto è contornato da operatori che svolgono “lavori socialmente utili”, certo facilmente vendibili agli elettori in un paese con tassi di disoccupazione che vanno dal 47 al 70%.
Appena i dati elettorali saranno pronti per essere dati in pasto a giornalisti e tecnici per le loro articolate analisi, sarà già tempo di pensare ad altro, ed in particolare, all’ultima e più importante scadenza del 2007: la decisione sullo status. Sono già ripartiti i negoziati tra Belgrado e Pristina sulla ridiscussione del Piano Ahtisaari. Si tratta, ancora una volta, di sterili incontri che non si intersecano in nessun punto dell’agenda programmatica. Visioni diametralmente opposte e divergenti sull’assetto futuro del Kosovo. Faccio a meno di aggiungere le mie parole a quanto già ampiamente riportato su giornali e riviste in merito ai due modelli presentati dai due governi. E’ chiaro a tutti però che la spinosa questione non è più faccenda interna, sempre che prima lo sia stata, ma deve essere inquadrata ed inserita in un contesto geopolico più complesso. Personalmente, non credo che la scadenza del 10 dicembre, fissata dalla Comunità Internazionale, venga rispettata neanche questa volta. Bisognerà aspettare, credo, il 2008, ed in particolare i risultati delle elezioni in Russia. Solo allora il contesto kosovaro potrà forse superare la stasi degli ultimi anni. Per ora, ciò che emerge è una situazione di insofferenza generale verso lo status quo che crea solo acqua stagnante, soprattutto quando non sembrano esserci sbocchi possibili. Le due inconciliabili visioni in gioco del contesto kosovaro sono presenti entrambe, in tutte le loro forme e tonalità, a Mitrovica, un concentrato di delusione, amarezza, rabbia repressa e mondi non comunicanti. Il Kosovo oggi è tutto questo. Mitrovica, ne è la capitale.
Due mondi, due lingue, due culture, due monete, due religioni diverse che in questi otto anni non hanno dialogato tra di loro. Neanche un pò. La Comunità Internazionale deve farsi autocritica su tutto questo, sui tanti errori fatti in passato e su quelli che continua a fare. Una cosa è certa, e mi è balzata agli occhi: ho rivisto una città che già ricordavo dal 2006 apparentemente tranquilla e calma ma che oggi è ancora più radicale: in questa fase di stallo le due fazioni estreme sono in fermento. Sempre il fiume Ibar ne è protagonista. Dalla parte sud del fiume, infatti, balza agli occhi la gigantografia di Ramush Haradinaj, che recita, ovviamente in albanese, “Insieme per il Kosovo”.Dall’altra parte, dalla parte nord, ad appena 30 metri di distanza da quest’ immagine, campeggia un monumento ai caduti serbi dei bombardamenti NATO del 1999, da poco inaugurato, in cui figura una lunga lista in cirillico di nomi e cognomi. A destra del ponte, sempre nella parte nord, si sta ultimando il grande palazzo di TELECOM SERBIA, la cui scritta è già ben visibile anche dall’altra parte del ponte. All’interno infine, in una posizione più riparata ma sempre comunque ben visibile a qualunque passante, anche internazionale, risalta all’occhio il manifesto con su scritto “In the name of God and Justice do not make our holy land a present to the albanians”. In basso, sempre sullo stesso, accanto a vari ritratti di Putin una scritta in serbo: “Russia aiutaci”. Forse, sono solo pure coincidenze; coincidenze però che fanno riflettere.

articolo pubblicato sul sito di peacereporter.net

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